Uno straordinario Crocifisso in avorio di Alessandro Algardi da vedere al Museo Statale di Mileto (VV).
di Maria Lombardo
Oggi andiamo a scoprire uno straordinario capolavoro d’arte che si trova a
Mileto, oggi borgo di poco più di 6 mila anime in provincia di Vibo Valentia ma
un tempo splendida capitale di un regno, quello di Ruggero, della dinastia
normanna degli Altavilla. Sull’area occupata dall’antica città oggi sorge un
sito archeologico imponente che cela tesori di inestimabile valore oggi
visibili al Museo è ospitato in un’ala
del Palazzo Vescovile, la cui
costruzione, iniziata con il vescovo Capece Minutolo (1792-1824), venne portata
a termine intorno al 1860. Le opere esposte abbracciano un arco temporale
compreso tra l’età tardo-imperiale e il XIX secolo, e sono distribuite su due
piani. Si parte dal piano terra dove sono esposti i reperti di età romana,
presumibilmente provenienti dal sito dell’antica Hipponion/Valentia, e quelli
medioevali riconducibili all’ex abbazia benedettina della SS. Trinità e
all’antica Cattedrale, come frammenti di vetrate policrome e un ricco corpus di
capitelli di arte normanna (XI-XII secolo). Al secondo piano (prima sala)
troviamo le testimonianze trecentesche, costituite dai resti dei monumentali sarcofagi
di Ruggero Sanseverino e di Giovanna d’Aquino e da altre opere attribuite al
cosiddetto “Maestro di Mileto”, mentre le altre quattro sale sono dedicate alla
collezione d’arte sacra, che comprende paramenti sacri, dipinti a carattere
dvozionale, raffinate argenterie, un turibolo del XV secolo, una navicella
portaincenso del XVI secolo, i busti di San Nicola di Bari (XVIII secolo) e di
San Fortunato martire (XIX secolo) e), ossia l’opera di cui vogliamo parlarvi.
Ora andiamo a parlare di questo capolavoro citato in calce. Il suo Crocifisso
presente a Mileto, scolpito in avorio e alto 58 cm, costituisce il prototipo delle raffigurazioni del Cristo
vivente che, proprio muovendo dall’esempio dell’Algardi, si diffusero nel Sei-Settecento.
Ascrivibile al quarto decennio del XVII secolo, l’opera unisce elementi di
cultura classica, evidenti nell’attenta e studiata ricerca anatomica, con altri
più propriamente barocchi come la resa del perizoma dal panneggio ampio e
svolazzante sul fianco destro. La superba figura del Cristo vi appare in
posizione frontale sulla croce lignea a cui è inchiodato con quattro chiodi, il
piede destro sovrapposto al sinistro, le mani richiuse sulle palme, il capo
coronato di spine, leggermente reclinato a destra e rivolto verso l’alto, lo
sguardo al cielo, le labbra semiaperte quasi nell’atto di esalare l’ultimo
respiro. Nell’opera si vede il pathos ma si percepisce un grande realismo
anatomico che si nota nella realizzazione del perizoma, destinato a diventare
un modello di riferimento per numerosi artisti sei-settecenteschi: consiste in
un ampio panno con lembo svolazzante sulla destra e riverso sul davanti a
formare una piaga ”serpentinata”, tenuto da una cordicella, secondo un motivo
già in uso nel XV secolo e ripreso anche dai Francescani Riformati. Calabria quest’opera costutisce un unicum non
avendo avuto il tempo di ”fare scuola”: essa fu infatti acquistata a Napoli
solo nel 1851 dal vescovo di Mileto Filippo Mincione; la scultura era stata
donata dal re di Napoli Ferdinando I al suo confessore monsignor Angelo Porta,
vescovo di Termoli, e infine passata al porporato calabrese.
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