La storia del nivuriddu, Michele Antonio Scigliano di Longobucco (CS) figlio del Ras etiope Ubie Manghescià.
di Maria Lombardo
Vi ho già parlato del periodo in cui a Longobucco vennero confinati 35
personaggi di primo piano del regno di Etiopia. Erano dei confinati mandati al
confino dai fascisti! Dicevo così in quel pezzo proprio in questo blog:” vi
sono alcuni comunicati risalenti al periodo: "Il Signor Maresciallo mi ha
confermato che sono disciplinati, rispettosi, non si lamentano e non danno
alcun motivo di lamenti. Soltanto il Degiazmacc Mangascià Ubiè, avendo lasciato
dubbio di non essersi comportato riguardosamente con donne del paese, fu
allontanato ed isolato in altra vicina località, con l’autorizzazione del R.
Ministero".Il soggiorno non fu comunque facile per gli etiopi, sempre
sotto l'occhio dei gendarmi e costretti a patire il freddo pungente della Sila
al quale non erano abituati. Ma il loro ricordo vive ancora sull'altopiano
calabrese, e la loro presenza è testimoniata dalla presenza di una piccola
comunità mista, figlia di un incontro durato circa 6 anni”. Che a nessuno venga
in mente di dire che la popolazione
Longobucchese avesse paura dei “cannibali” mente spudoratamente! Chi invece
destò preoccupazione fu il ras Ubie Manghescià, ex ambasciatore etiope a Roma
ed ex governatore della provincia Uellega Occidentale. Questo ras ebbe una
relazione con una donna di Longobucco, che aveva il marito in guerra, che
andava a fare le faccende a casa sua. Dalla relazione nacque un bambino di
carnagione nera, che il marito della signora – tornato dalla guerra –
riconobbe, Michele Antonio Scigliano. Ma
si sa come dicono gli antichi la carne è debole! Dopo qualche anno arrivò al
comune di Longobucco una lettera dell’ambasciata etiope che chiedeva notizie
sul ragazzo. Avutele, il ras richiamò presso di sé in Etiopia il giovane. Di
seguito la storia raccontata da testimoni diretti e articoli sui confinati
etiopi. Una figura particolare il degiac Mangascià Ubié. Mangascià si lamenta
di essere finito nel gruppo dei più cattivi. Scrive subito al prefetto, in
italiano, sostenendo che non ha “mai agito male”, che ad Addis Abeba ha fatto
atto di sottomissione al maresciallo Badoglio, nonostante avesse ai suoi ordini
un esercito di settemila uomini, “perché amavo l’Italia e in Italia mi fidavo”.
Il governo non accoglie le parole di Mangascià non viene trasferito. Non subito,
almeno. Invece, dopo un anno, nel giugno del 1938, il prefetto chiede al
Ministro degli Interni di mandarlo a Bocchigliero, un’ora di curve da
Longobucco, non certo in una situazione migliore. Infatti il trasloco non è un premio per buona
condotta, al contrario. Il motivo è che il degiac avrebbe “contratto relazioni
con prostitute del luogo”. Ecco che nel febbraio ’39 Giuseppina Blaconà mette
al mondo un bambino detto “u nivuriaddu”
che non può proprio essere figlio di suo
marito, Vincenzo Scigliano. Ma la “prostituta” così famigerata era una donna
che si occupava delle pulizie delle stanze e di preparare i pasti per i
confinati. Un lavoro che fu proprio il marito a trovare per la moglie. Vincenzo
comunque riconosce il figlio e gli dà il nome di suo padre, Michele Antonio. Forse
lo fa per evitare guai alla moglie, visto che in Italia la legge parla chiaro:
“il cittadino che intrattiene relazioni di indole coniugale con un suddito
dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque
anni.” Mangascià fu inviato a Bocchigliero e torna in Etiopia quando gli
Anglo-Americani liberano la Calabria. Dall’Etiopia scrive alla donna vuole
crescere lui il figlio, manda anche del denaro, ma la madre non sente ragioni.
Michele Antonio cresce a Longobucco, diventa carbonaio e pastore, si sposa a
diciott’anni, e nei primi anni Sessanta gli nascono due figli: Mangascià
Vincenzo e Giuseppina. Mangascià Ubié è morto e gli ha lasciato tutta
l’eredità, perché nel frattempo ha avuto altri due figli, ma sono dei poco di
buono e non meritano nulla. Michele Antonio s’informa e pare che la cifra sia considerevole:
il padre è stato Ministro, consigliere dell’Imperatore, ha sposato una donna
molto ricca, è rimasto vedovo. Inizia una nuova vita per “ u nivureddu”nel maggio
1963, Michele Antonio rinuncia alla cittadinanza italiana, prende quella
etiope, con il nome di Micael Mangascià e parte per Addis Abeba.A quanto
dicono, Michele Antonio non è mai più tornato a Longobucco: e anche qui si
favoleggia dei conti che avrebbe lasciato da pagare prima di sparire, del suo
assassinio in Etiopia per mano di sicari pagati dai fratellastri, di gozzoviglie
esotiche, testamenti annullati, povertà improvvisa, dalle stalle alle stelle
alle stalle, e via stereotipando.
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