I fratelli Massara di Limbadi e lo zuccherificio di Lamezia Terme.
di Maria Lombardo
E’ facilmente individuabile quello che rimane dell’ex
zuccherificio dei fratelli Massara di Limbadi a pochissimi passi dalla stazione
di Lamezia Terme. Oggi è un monumento di archeologia industriale in pieno
abbandono! Al suo interno ancora sono visibili macchinari ed utensili che fino
al ’70 hanno lavorato di gran lena. La
Cissel, Compagnia industrie saccarifica Sant'Eufemia Lamezia, fu voluta da due
lungimiranti fratelli di Limbadi che lasciato il paesello agricolo negli anni
’30 e sfruttando l'amicizia personale col Duce si buttarono in questa stupenda e redditizia attività. “ Un milione e duecento
mila quintali di bietole lavorate in ogni stagione saccarifera. Ventimila
quintali di bietole lavorate al giorno. Seicento operai impiegati all'interno
dello stabilimento, più tutto l'indotto esterno. Cento camion al giorno in
arrivo nel piazzale per portare via lo zucchero raffinato. Ottocento libri di
nafta bruciata ogni giorno per far funzionare l'impianto”. Cosa dire
numeri da capogiro!. Le bietole giungevano con i carri ferroviari poi carretti
trainati dai buoi li portava nello stabilimento, venivano scaricate in 3
silos giganti dove un getto d'acqua trasportava le bietole dentro e le lavava.
C'era una ruota immensa che serviva da sollevatore e portava le bietole sopra
in una parte che si chiamava trince, dove venivano affettate. Poi passava in un
altro reparto, chiamato di separazione, dove c'erano tre vasche e con dei getti
di acqua calda veniva estratto il succo, venivano poi aggiunte delle sostanze
organiche. Si passava così al reparto evaporazione e poi la cottura, con infine
la raffineria, dove il liquido veniva messo dentro alcune turbine che giravano
ed estraevano la melassa dalla zucchero liquido. La melassa veniva venduta
diversamente, così come anche il residuo della bietola era usato come mangime.
Infine, lo zucchero veniva messo nei sacchi. Nello stabilimento come detto
in calce era impiegata molta gente e lo storico Isnardi definisce quella zona
come ‘il Parnaso d’Italia’. lungo la via Popilia, dal ponte intatto sul Savuto
sino al sito del Santuario di Dipodi, compreso il “vecchio mercato del basso
romano Impero” sito in Nicastro, ora trasformato in una strana e inutile vasca,
le cui mense ponderarie sono ora custodite nel museo archeologico cittadino. Ma
le “canna mele” in queste zone si è sempre coltivata con i carri pieni di
barbabietole che attraversavano i campi lametini da tempi immemorabili, con
imbarchi che avevano luogo sul pontile di Gizzeria lido sino ai tempi del II°
dopoguerra. Il luogo simbolo dello zuccherificio fu il risultato di agitazioni
e movimenti popolari che richiedevano il prosciugamento delle acque stagnanti e
la bonifica del territorio infestato dalla palude”. “A tale scopo furono
convogliate nella piana diverse famiglie coloniche, scelte dal ‘Commissariato
per le migrazioni e la colonizzazione interna’ per l’abilità nella coltivazione
dei campi e delle colture specializzate autarchiche, come il ricino, il cotone
e la soja. Esse, provenienti dal
Polesine, dalla Sicilia e da altre regioni, dovevano, così, lavorare nelle
nuove terre bonificate ed operare la trasformazione agricola della zona”. “Per
dare maggiore impulso al territorio, il governo fascista avvertì anche la
necessità di concedere l’indipendenza amministrativa al nuovo villaggio –
sottolinea infine Villella – con legge 8 aprile 1935 venne così istituito il
comune di S. Eufemia Lamezia. La coltivazione del riso, della barbabietola e
l’insediamento dello zuccherificio divennero il corollario produttivo tra
industria e agricoltura dal 1941 e nel dopoguerra fino al 1961, quando,
nonostante le agitazioni popolari e le varie interrogazioni parlamentari, lo
stabilimento cessò definitivamente la produzione”.
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