17 novembre 1951 Vibo Valentia: tragedia della "littorina"



di Maria Lombardo


Sono passati 66 anni da quel  17 novembre l’automotrice “M1-36” percorreva, con 70 persone a bordo, il tracciato ferroviario conosciuto come “Pizzo-Porto Santa Venere-Mileto”, importante opera di alta ingegneria inaugurata il 2 luglio 1917 quando ancora Vibo era denominata Monteleone e Vibo Marina si chiamava Porto Santa Venere. Nelle previsioni progettuali originarie la linea avrebbe dovuto congiungere, con un percorso di circa 120 chilometri, Porto Santa Venere a Soverato, consentendo il collegamento Tirreno-Ionio su strada ferrata. Ecco che prima i trenini e poi le “littorine” rappresentavano un modo per raggiungere Vibo e molti paesi interni. Nei mesi estivi , in particolare, il numero dei viaggiatori aumentava sensibilmente grazie alle “corse popolari”, che consentivano a comitive di bagnanti di raggiungere le bianche spiagge di S. Venere con un biglietto del costo di dodici soldi. La tratta ferroviaria con partenza da Porto Santa Venere prevedeva le fermate alle stazioni e ai caselli di Pizzo, Longobardi, Sant’Onofrio, Monteleone, Vena, Ionadi, Cessaniti, San Costantino Calabro e infine Mileto. Le “Emmine”, utilizzate sul percorso, avevano preso tale appellativo dalla sigla “M” di immatricolazione che le avevano assegnato le Ferrovie Calabro-Lucane e, dato che erano proprio piccole, ebbero tale grazioso diminutivo. Quell’autunno fu piovosissimo in Calabria, frane smottamenti e inondazioni furono frequenti  ma questa situazione venne presa poco in considerazione per la contemporanea alluvione del Polesine. Ma torniamo a quella mattina, c’erano passeggeri di un po’ tutti i paesi: Mileto, Francica, San Costantino, Vibo. Molti di essi erano operai che si recavano a Vibo Marina per prendere servizio presso il Cementificio “Segni”. Tra di essi viaggiava anche un insegnante, di solito puntualissimo, ma quel giorno stranamente ritardatario. Il capotreno Giuseppe Pisano, essendo suo conoscente, l’aveva atteso qualche minuto oltre l’orario consentendogli in tal modo di non perdere la corsa. Ma nella vita ci sono dei percorsi che portano più ad un destino che ad una destinazione. Si viaggiava a 70 km orari ad un certo punto si notò cedere  l’ultima arcata del ponte “Ciliberto”, tra Pizzo e Vibo Marina, in linea d’aria con la bianca rupe di tufo che si affaccia sul mare e che, per tale colorazione, viene denominata “Timpa Janca”. I conducenti dell’automotrice non ebbero neanche il tempo di pensare e tutto si svolse in pochi, interminabili, attimi: la littorina, con il suo carico di vite umane, precipitò nel vuoto da un’altezza di diciotto metri. Nove persone morirono sul colpo, altre due moriranno in seguito alle ferite riportate, altre 40 rimasero ferite in maniera più o meno grave.Quella tragedia determinò la fine della linea ferrata. All’indomani del disastro, l’on. Casalinuovo formulerà un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro dei Trasporti per chiedere quali provvedimenti il governo aveva in mente di adottare per un definitivo assetto dei mezzi di trasporto nella zona, che, eliminando ogni pericolo, offrisse garanzie di sicurezza. La risposta del ministro fu quanto mai rassicurante: “Nei riguardi della sicurezza dell’esercizio, nessun particolare provvedimento risulta necessario adottare per la rete ferroviaria in esame in quanto esistono le prescritte garanzie. Per un potenziamento dell’esercizio della rete stessa, sono infine in corso, com’è noto, alcuni provvedimenti fra i quali l’acquisto di 24 nuove automotrici ed 8 rimorchiate”. L’incidente di “Timpa Jianca” fu visto come un disastro annunciato un campanello d’allarme  era già suonato il 27 ottobre 1927, quando il treno diretto a Porto Santa Venere, gremito di viaggiatori, giunto nei pressi della stazione di Longobardi, per poco non era stato investito da un enorme macigno di circa cento quintali staccatosi dal costone e precipitato sulla linea. La tragedia , che in quel caso avrebbe potuto assumere le dimensioni di una strage, fu evitata soltanto grazie alla prontezza di riflessi del macchinista Giuseppe Crea ,che riuscì in extremis a fermare la locomotiva a pochi centimetri dal masso che ostruiva il binario. Era forse un segnale importante, che avrebbe dovuto suggerire l’adozione di decisi interventi strutturali e invece nessuno se ne sarebbe curato. Quel disastro costituì un pretesto valido per smantellare il percorso ferroviario ,caratterizzato da un meraviglioso tracciato panoramico che oggi, grazie ad un progetto finanziato dalla provincia di Vibo Valentia, è possibile percorrere a piedi con ingresso a fianco della stazione della “Madonnella”. Esso rappresenta uno dei luoghi naturalisticamente più suggestivi dell’intero territorio provinciale e, percorrendolo, qualcuno potrà anche sognare che un giorno quella vecchia linea ferroviaria venga in qualche modo recuperata ed utilizzata non solo per fini escursionistici. Un ringraziamento a Rocco Greco, poeta Pizzitano che oggi mi ha dato lo spunto per approfondire questa triste pagina di storia Vibonese.

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