Ecco a voi Sua Maestà la n’dujia calabrese.
di Maria Lombardo
Niente è più chiaro nell’affermare che nella cultura
contadina calabrese il maiale fosse tenuto in grande considerazione per le
provviste alimentari che garantiva per tutto il corso dell’anno, è dimostrato
dal fatto che ancor oggi, nelle famiglie calabresi, non è scomparsa la
consuetudine di ammazzare il porco nei mesi invernali per farne salsiccia,
soppressate , capicolli e la ‘nduja. Più volte vi ho spiegato in questo blog ed
in altri che l’uccisione del maiale costituiva un vero e proprio rito, che si
protraeva per almeno tre giorni necessari per la lavorazione , nelle sue varie
fasi, avvalendosi della collaborazione prestata nell’occasione dalle comari e
dai parenti che, invitati , accorrevano per dare una mano d’aiuto e brindare in
allegria con vino generoso e genuino. C’è un detto popolare , di antica memoria
; “ Cu si marita è cuntentu nu jornu, cu ammazz u porcu è cuntentu n’annu”. Non
v’è dubbio che partecipare ad un banchetto può deliziare un giorno, ma
ammazzare un maiale vuol dire avere provviste per un anno. Infatti niente del maiale viene scartato. Il
maiale, una volta ammazzato, veniva sezionato per preparare dalla carne magra
gli insaccati, e dal grasso lo strutto che, un tempo, era sostitutivo dell’olio
e financo utilizzato per ricavarne il sapone con l’aggiunta di potassio e
cenere. Tra i prodotti tipici la ‘nduja
occupa un posto singolare nella gastronomia, con un nome, la cui origine è
grecanica o araba, come a prima vista potrebbe credersi, “Nduja” deriva
piuttosto dal francese (andouille) e significa salsiccia. Della salsiccia, tuttavia, ha solo l’aspetto, ma non gli ingredienti e soprattutto il
sapore. La sua produzione, pur conservando peculiari
caratteristiche familiari, si è trasformata in artigianale raggiungendo alti
livelli di qualità nel comprensorio del Poro ed a Spilinga in particolare.
E’ confezionata con carne di maiale, con pezzetti di
grasso in modica quantità, aromatizzata con pepe rosso, a volte in misura
considerevole, che, per il sapore piccante conferitole, ha incontrato il gusto
dei consumatori della genuinità. Tutti i componenti, compreso il pepe rosso,
vengono macinati col tritacarne. L’ impasto, a cui si aggiunge il 3% di sale,
viene omogeneizzato in madie di legno ed insaccato in involucri naturali
(intestino tenue e cieco di suino e bovino), per essere affumicato per qualche
giorno con legna resinosa ed aromatica e stagionato poi in soffitte a
climatizzazione ottimale. Si può mangiare dopo 15/20 giorni di stagionatura ed
anche dopo un anno.
La ‘nduja ha colorito rossastro, consistenza pastosa che
non diventa mai dura anche dopo la stagionatura e sapore piccante. La si trova
in tutti i ristoranti della zona. Spalmata su fette di pane integrale ed
accompagnata da un buon bicchiere di vino dà un gusto ed un sapore particolare,
che ricorda la vecchia cucina della tradizione contadina.
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