Il Ponte di Sofia ad Argusto (CZ) quando la leggenda incontra i monumenti.



di Maria Lombardo


Da alcune antiche note mnemoniche  riportiamo la leggenda del ponte di Sofia. Il millenario racconto è stato ricavato da una trascrizione apocrifa da un manoscritto greco del secolo XII°  e contenuta in una redazione latina rinvenuta nell’archivio di un antico monastero. L’originale è andato forse disperso o venduto da qualche rigattiere venutone in possesso chissà come e la trascrizione probabilmente distrutta da un incendio. Qui la riportiamo come riduzione della narrazione effettuata su appunti mnemonici dal professore Ilario Principe. Girando l’angolo della motta, poche casupole di fango e paglia si erano strette l’una all’altra come per farsi compagnia, e salendo verso il ciglione del terrazzo che si spalancava sulla valle chiusa da alte groppe brulle e sassose, si poteva scorgere il villaggio. Sofia, cercava la sua stella. Intorno frusciavano le canne mosse leggermente dal vento della notte incipiente. Non era ancora primavera e il freddo cominciava a farsi sentire attraverso quella rustica tunichetta di canapa malamente stigliata in casa,che la bucava da tutte le parti; si coprì col pellizzone di pecora che le faceva un po’ di ribrezzo perché le sembrava di penetrare in un altro corpo, che non era né il suo né quello di sua madre dalle cui viscere era scivolata via, immaginava, come il corpo del suo fratello minore Costantino. Uscendo dal ventre materno lui si era come risucchiato tutta la vita della mamma, che era rimasta là sul giaciglio di paglia, immobile, cogli occhi chiusi e senza più ansimare, come faceva appena pochi istanti prima. Se lo ricordava benissimo quel momento, e quando le avevano detto di venir via, col fratellino che strillava avvolto in poche bende di lino servite a chissà quanti altri neonati prima di lui, se ne era andata docile verso la capanna e aveva iniziato il suo nuovo ruolo di capo di famiglia. Una ben strana famiglia, formata da due soli individui, una giovane e l’altro pargolo appena svezzato, si diceva; ma le regole della comunità non ammettevano deroghe su questo punto e quindi aveva dovuto accettare il turno di guardia notturna al ponte. In quel momento ci stava poggiando le spalle, a quel ponte che nessuno sapeva da chi era stato costruito e perché; sopra un grosso sasso liscio si alzava la breve arcata di una ruvida muratura, messa di sghimbescio rispetto al torrentello che scorreva ai suoi piedi. Il corso d’acqua era breve, lei lo sapeva, perché veniva dalla collinetta che sovrastava verso sud ovest la motta dove si era insediata la sua comunità.Era costruito bene, quel ponte, non c’era che dire, e rappresentava gran parte della loro ricchezza. Sofia era una ragazzetta magra magra con due profondi occhi scuri sotto un gran ciuffo di capelli, che non voleva lasciarsi crescere come facevano le altre perché, diceva, essere capofamiglia non le dava il tempo di pettinarsi e curarsi le trecce; preferiva farseli tagliare corti, i suoi capelli duri e neri, con quella rozza forbice da tosa che era uno dei beni più preziosi della comunità, e così assomigliare, diceva ancora, a un vero capofamiglia, a un uomo. Non era vero, naturalmente, ma le piaceva crederci: in realtà era uno dei pochi modi di affermare la propria individualità, una volta che questa si era dovuta caricare di responsabilità forse troppo grandi per le sue spalle. E ora guardava il suo corpo, appoggiata alla pietra che sosteneva quel ponte, il tintinnabulo di ferro altro piccolo tesoro da guardare con cura ‑ a portata di mano e un discreto bastone poco lontano. Ormai da qualche tempo tutto sembrava tranquillo e la guardiania al ponte, che aveva fatto alcune volte di giorno, sembrava solo una noiosa formalità. Però non si sa mai, le avevano detto, e proprio per quella tranquillità avevano pensato che era il suo turno, nonostante la giovane età, di far la guardia al ponte di notte, fino ad allora prerogativa dei soli maschi adulti, capifamiglia appunto come lei. Nessuna luce veniva dalla motta poco lontana, ma lei avvertiva cosciente il suo calore e la familiare presenza, sebbene potesse sembrare, ed era, un minuscolo agglomerato di casupole serrate senza ordine con un solo edificio in pietra, ricavato peraltro dai pedamenti di un antico edificio e riutilizzando le pietre squadrate alla meglio che si trovavano tutt’intorno. Era quella vecchia costruzione la dimora di Nicola e della sua famiglia. Nicola era il loro capo spirituale, conservava tutte quelle cose lucenti che servivano per le frequenti congregazioni in cui si ritrovavano tutti insieme, tanto erano poco meno di una settantina di persone e in qualche modo erano tutti imparentati l’uno con l’altro, e raccontava le storie che poi si tramandavano di generazione in generazione. Da lui Sofia, aveva saputo che molti secoli prima il monaco eremita Ilarione aveva invitato anche i pagani a venerare Gesù col lavoro manuale, e li aveva indotti a cercare nuove terre da coltivare. Proprio in questo modo, proseguiva Nicola nei suoi racconti, alcune famiglie avevano preso le loro poche cose, quattro pecore e gli oggetti preziosi e luccicanti che erano stati benedetti dalla stessa santa mano dell’eremita, e si erano diretti verso nord nella stessa direzione che aveva preso Ilarione, quasi per seguirne le orme e continuarne la predicazione. Uno di questi gruppi, il loro, si era insediato presso quella grande casa in pietra ormai ridotta a rudere e aveva scoperto, con sorpresa e all’inizio con qualche paura, dell’esistenza del ponte.che era stata la loro salvezza. Le acque qui erano abbondanti, diceva, ma i campi da coltivare non erano molto fertili o sufficienti a sfamarli coi miseri attrezzi che avevano;a quel punto  era stato facile deviare il cammino che tutti usavano e farlo passare proprio su quel ponte. Fin dai primi tempi non chiedevano gabella e non minacciavano nessuno, sia chiaro, specificava Nicola, e solo di rado avevano dovuto mostrare i denti e il filo delle armi a qualche isolato viandante con cattive intenzioni; ma un po’per volta, quasi come per miracolo, lui stesso non sapeva dire come, si era stabilita la consuetudine di versare al passaggio del ponte una piccola parte della merce trasportata, molto piccola in verità ma quanto bastava per soddisfare dignitosamente le poche esigenze della comunità oltre alle risorse che ricavava dal lavoro dei campi. Sofia si alzò per fare qualche passo e sgranchire le gambe. Il buio non era un problema: conosceva quei posti come il palmo della sua mano e avrebbe potuto girarli ad occhi chiusi. Ma ora gli occhi li teneva fissi alla vòlta del cielo e rivolgeva alla sua stella una preghiera, ma senza usare le parole, semplicemente vibrando all’unisono con quel palpitare lontano che pareva l’eco esatta dei battiti del suo cuore. Un rumore secco, come di canna spezzata, che pareva molto vicino interruppe l’incanto.Si fece subito attenta. Sapeva benissimo che il sentiero superava poco lontano dal ponte una gibbosità del terreno e poi si snodava a fianco del torrentello; era rimasto in gran parte lastricato di antiche pietre, quelle stesse messe a dimora probabilmente da chi aveva costruito il ponte, e le parti mancanti le avevano poco a poco sostituite loro, con i mattoni di scarto di una fornace ormai scomparsa,parsi dappertutto in quella zona. Sulle pietre era facile attutire il passo, e se qualcuno voleva passare senza preoccuparsi del consueto obolo alla comunità, si sarebbe incamminato di notte e con passo felpato. Il rumore la spaventò, perché era innaturale in quel momento e in quel luogo. Ma presto si convinse, nel silenzio più assoluto, che non c’era ragione di temere, e si sedette nuovamente con le spalle alla pietra d’angolo dei ponte. Sapeva che non doveva dormire, e d’altro canto non ne sentiva il bisogno; l’aria fresca e i suoi pensieri la tenevano sveglia.Capì che era un rumore reale, non se l’era immaginato.Qualcuno, o forse più di uno,avanzava circospetto a poche diecine di metri da lei sulla croda erbosa, cosparsa di rami spezzati, del torrente. Con un gesto sicuro si accertò che il tintinnabulo fosse al suo posto: la fredda superficie del metallo le dette come una scossa, ma anche un senso di sicurezza. Sarebbe bastato sollevarlo e agitarlo con forza,e dalle case sulla motta,distanti una trentina di metri,le avrebbero portato subito soccorso. Si ricordò che un paio di giorni prima aveva sentito parlare di un terzetto di briganti che era stato visto aggirarsi in  un paese vicino. Lei non ci aveva fatto caso allora.Tre come i re magi pensò. E immaginò tre persone che salivano verso di lei cariche di doni. Una bella veste candida da mettere al posto della sua felpa ruvida,una forbice luccicante per tagliare i capelli al posto di quell’arnese da tosa che faceva male,e un sacco con tanta buona roba da mangiare al posto di quel poco che offriva la carità dei vicini.Non fece in tempo ad immaginari felice con suo fratello Costantino che quei tre brutti ceffi arrivarono davvero. La trovarono il mattino dopo, ed era irriconoscibile. Avevano infierito su quel povero corpicino, ormai rattrappito come un albero contorto dal vento, in tutti i modi possibili;le gambe spezzate rivolte da un lato e un braccio a coprire quel che restava del volto, ridotto a una maschera di sangue rappreso. Non aveva più nulla indosso,e qualche roditore e gli insetti del mattino avevano anche loro approfittato,attaccando le parti più tenere di Sofia.Quasi per miracolo la bocca era rimasta intatta, e pareva atteggiare un sorriso dolce, come se la povera fanciulla avesse in quegli spasimi orribili trovato invece la soddisfazione ad un suo desiderio segreto. Nessuno si chiese perché non avesse gridato, non avesse suonato il tintinnabulo; nessuno disse una parola, solo qualche lacrima scorreva pietosa sul volto delle donne più anziane. Un rimorso sordo, un acuto senso di rimpianto sembrò attanagliare da quel momento la comunità: nessuno la poté vedere, perché i suoi occhi non esistevano più. La rivestirono alla meglio con la sua tunica di canapa grezza;il pellizzone era sparito, e chiusero quei poveri resti in un sacco tessuto di una strana fibra, morbida al tatto, trovato lì vicino, forse dimenticato dai malfattori nell’ebbrezza della loro orgia sanguinosa. Non la seppellirono sulla motta dov’erano tanti altri loro compagni, ma scavarono una buca profonda, molto profonda sul greto del torrente dove, dopo una leggera curva, s’imposta la pietra d’angolo del ponte. Ce la misero tutta, senza parlarsi ma con un accanimento comune, finché riuscirono a scavare una buca trasversale alla prima e depositare quel sacco, ben in profondità sguazzando nella melma, proprio sotto la pietra più grossa che sosteneva l’arcata del ponte; poi ricoprirono tutto rassodando il terreno molle perché non avesse a franare. Non si accorsero che nel sacco c’era una piccola lamina di un metallo luccicante, rame si sarebbe detto ma era invece oro, scalfita con strani caratteri: e quello fu l’unico testimone del suo incontro in Cristo. Aveva capito tutto Costantino, ma non disse nulla quando lo portarono da Nicola, che lo prese con sé volentieri, forse indovinando nel futuro un’altra partenza senza ritorno. Non si sfaldò subito, la comunità, ma la vita non fu più come quella di una volta. La casa di Sofia venne lasciata deperire e solo il piccolo Costantino ci andava qualche volta, senza sapere perché; poi smise anche lui e pian piano il vento e la pioggia la squagliarono. Il ponte rimase incustodito, o meglio la sua custodia fu delegata all’anima di Sofia  che,nella sua tenera dolcezza, lo custodisce in  perpetuo. Quel ponte era certamente un vecchio ponte romano sul quale correva forse una di quelle antiche strade di pietra calcarea.

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