Il dardo fatale tra Rombiolo e Pernocari (VV): miracoli di Calabria.

di Maria Lombardo
Tra gli antichi villaggi di Pernocari e Rombiolo sorgeva un Convento francescano dei frati Minimi, eretto in onore di Sant’Antonio. Sul frontale di una porta interna vi era un’iscrizione latina: “Huius fondatio fuit Coenobii pridie idus septembris MDLXXXVII” che lo faceva risultare fondato il 12 Settembre 1587 . Quel primo cenobio fu costruito nella proprietà di un certo dottor Vincenzo Figliozzi, da lui stesso ceduta, gratuitamente, ai frati. In origine ebbe il titolo della Madonna della Consolazione che, in seguito, venne cambiato in quello della Madonna degli Angeli, allo scopo di poter lucrare le indulgenze della Porziuncola. Il primo Guardiano fu Padre Pietro da Moladi, della famiglia Barletta, che fu eletto Provinciale e morì in concetto di Santità nel Convento di Cassano. Il Boverio, lo diceva “dei Quartieri” riportando sicuramente la voce popolare. La Chiesetta del Convento, aveva due navate con porticato, nello stile conforme alla tradizione cappuccina, semplice e linda, per cui ispirava devozione ed invitava al religioso raccoglimento. Detta chiesa era ricca di opere d’arte come i due altari in legno, siti nella seconda navata che, probabilmente, furono portati dal distrutto Convento di Motta Filocastro, e furono poi demoliti perché resi inservibili dall’umidità. Oltre l’altare di Sant’Antonio, successivamente rifatto in marmo, vi era l’altare Maggiore in legno, su cui troneggiava il quadro della Beata Vergine degli Angeli e la custodia intarsiata, lavori questi di frà Daniele da Scilla, che li completò nel 1715. Il Convento possedeva anche un quadretto di ottone che ricordava un rito che oggi la Chiesa non pratica più. In esso stava scolpita a rilievo l’ultima scena della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo che il popolo baciava durante la Messa solenne sotto il titolo della Pace, cioè quella della domenica delle palme. Certamente ispirato da quel quadretto un bravo artista dipinse, sotto un’arcata del chiostro, un affresco con rifiniture ad olio, un bel crocefisso che attraeva i rari passanti. A proposito di quest’opera artistica, un’antica tradizione narrava che, pochi anni dopo l’edificazione del Convento, un giovane cavaliere di Motta Filocastro, disobbediente ai genitori, si era dato a vita dissoluta. Forse si trattava di un cadetto diseredato. A quei tempi, infatti, alla morte del capofamiglia l’intero patrimonio passava al primogenito per impedirne la dispersione e garantirne l’unità. Così il secondogenito o gli altri fratelli maschi dovevano contentarsi delle briciole specialmente se avevano sorelle cui spettava la dote se si sposavano o i mezzi adeguati per pagare la retta se andavano in convento a farsi monache. Ed Il giovanotto, con la sua piccola parte, tradotta in soldi, se ne partiva lontano in cerca di fama e fortuna con le compagnie di ventura o per mettersi a lavorare a sevizio di altri. Cose che, il protagonista della storia disdegnava, amando le donne ed il divertimento con gli amici, come allora usava fare. chi se lo poteva permettere. Ma le poche sostanze finirono presto ed egli, errabondo per campi e città, un giorno, stanco ed affamato, s’imbatté in quel Convento. I Frati, senza nulla sospettare, l’ospitarono con tutta la possibile cortesia. Lo rifocillarono e gli approntarono un lettuccio per riposare. Il giorno appresso, si alzò presto e si a passeggiare pensoso e a passi lenti su e giù per i corridoi del pianterreno. Ad un certo punto si trovò davanti all’immagine del Crocefisso dipinto alla una parete. Il giovane dagli occhi torvi e dimessi, si fermò davanti, e lo guardò fisso, in atteggiamento quasi di sfida come se volesse incolpare il Cristo delle sue disgrazie e, dimenticando gli eterni castighi, imbracciò l’arco, incoccò la freccia, diresse l’arma alla divina immagine e vibrò il colpo. Lo strale toccò nel chiodo che trafiggeva i piedi di Gesù. All’istante la freccia si capovolse e, con la stessa forza, tornò indietro e si conficcò nel cuore del povero sciagurato che, subito, morì ai piedi di quella croce. In quel tragico momento giunsero i frati che cercavano il loro ospite. Allo spavento subentrò la compassione e poi la curiosità sul come poteva essere accaduto quell’inaudito e misterioso delitto se nessun altro estraneo era penetrato in quel cenobio. E poichè si trattava di un fatto strano e nuovo nella storia della piccola comunità, informarono subito l’autorità civile, la quale giunta sul luogo ed effettuati i dovuti accertamenti, affermò che quella morte era avvenuta per miracolo, e non già per opera umana .Per tanto i frati informarono anche il Vescovo di Mileto, il quale, confermando quanto detto dagli inquirenti, ordinò che il cadavere del giovane fosse sepolto ai piedi dello stesso Crocefisso, affinché Gesù si muovesse a pietà usando, per la sua anima misericordia e perdono. E cosi si fece .Ma siccome, col passare degli anni, la tradizionale narrazione si era tramandata ai posteri non più con la primitiva fedeltà, ma inquinata dalle varie impressioni individuali al punto da non sembrar più una storia vera ma una fola paesana, il venerando P. Nicola Tavella da Monteleone Calabro, dimorando al Convento come Superiore, nel 1865 , per accettarsi se quanto si raccontava in giro rispondesse a verità, fece domanda alle autorità competenti e dopo un bel po’ ottenne il permesso per l’esumazione. La delicata operazione, però, dovette essere rimandata perché nel frattempo il convento era stato soppresso. Avvenne, comunque, dopo la riapertura, il 12 agosto 1883. Mentre veniva eseguita l’esumazione, si trovò a passare di là il M.R. Parroco Pata da Pernocari il quale, vivamente impressionato, improvvisò un sonetto che così recitava: Contempla ,o passeggier, quant’è possente/ quest’immagin che adori. Antica fede/ ci annunzia che, qui armato un miscredente,/ d’arma e faretra, un dì, rivolse il piede./La guarda con disprezzo, e indifferente,/che offende un Dio, perché a Dio non crede,/vibra un colpo di stral, che urtar si sente/ nella parete, e dietro torna e cede./Che dell’indegno trapassando il core,/cade sul suolo , impallidisce il volto,/ perde la voce, serra gli occhi e muore./Al luogo del delitto, ove fu colto,/per esempio degli altri e per terrore/di questa imago al piè giace sepolto. Tra le ossa del defunto furono rinvenute parti dell’ abito nobiliare. ciocche posticce legate con nastrino azzurro, pezzi dell’arco, le frecce, resti della faretra ed altri particolari che fecero ritenere, fuor di dubbio, che il fatto narrato era accaduto veramente. E, come tre secoli prima, il vescovo pro-tempore, dispose che i resti mortali del giovane Cavaliere fossero tumulati, nuovamente, nella medesima fossa d’onde erano stati tratti e, stavolta, certamente a monito di quanti, contando sulle forze naturali e sul potere umano, si rivolgevano, senza giusta ragione, contro Dio. E da allora chiunque visitava il Convento non poteva fate a meno di sostare sotto quell’arcata e, ripensando al dardo fatale, rivolgeva al Cristo crocefisso, ritratto in quell’antica immagine, non certo una freccia prepotente, ma un’umile preghiera affinché allontanasse dall’animo l’istinto dannoso della cattiveria umana.

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