C’era una volta la Pasqua a Nicotera (VV)


 di Maria Lombardo

La domenica delle Palme dava inizio ad una Settimana intensa di eventi e riti da scandire.Si ritornava a casa, dopo la funzione della domenica delle Palme, con dei ramoscelli di ulivo benedetti e precedentemente abbelliti con nastrini colorati mentre dai rami più grandi e folti penzolavano crocette, panierini o piccole figure a fisarmonica create sapientemente con foglie di palma e dal gusto tanto baroccheggiante. Le nonne per i nipoti avevano preparato “u pisci i palma” sapientemente intrecciato.Al ritorno i ramoscelli benedetti si appendevano all’ingresso dell’abitazione a protezione della famiglia dai cattivi influssi e dalle negatività e persino per levare il malocchio. Le massaie che sicuramente avevano provveduto con cura a conservarle in un posto fresco e buio; certo non se ne prestavano e non se ne vendevano poiché erano indispensabili in tutte le preparazioni di questo periodo. L’uovo simboleggiava la nascita, la vita e segnava anche la fine della quaresima e del digiuno.I dolci di Pasqua erano delle vere bontà nate dalle antiche tradizioni popolari e contadine; “I campanari”, dolce su cui erano poggiati dei confettini, “I cannellini”, i diavoleti di tutti i colori e una glassa soffice e bianca. Veri capolavori su cui troneggiavano le uova crude destinate alla cottura nel forno. Questo dolce così apprezzato, ricco di decori, appariscente e prezioso, rappresentava la fedeltà, la valenza di quel rapporto e il sentimento che univa chi lo regalava e colui che lo riceveva. L'intervistato che è mio padre un giovanotto di 80 anni dice che” i fasci di rami riposti all’asciutto venivano scaricati davanti al forno comune perché in genere i forni erano dislocati nel paese e si facevano i turni stabilendo le giornate per infornare i dolci o per cuocere il pane”.I dolci, riportati a casa, delicatamente si adagiavano nei canovacci candidi e puliti e si chiudevano nella “Cascia”, baule, affinché né i bambini, né gli adulti potessero accedere a quel prelibato bottino fino al suono trionfale delle campane del sabato quando per le valli rideste si diffondeva l’attesa notizia che Gesù Cristo era risorto.Durante la Settimana Santa gli uomini andavano ad asparagi e sparava potesse portarne con sé grandi mazzi per la preparazione delle magnifiche e profumate frittate di Pasquetta.Le massaie raccoglievano i carciofi selvatici, “Carduni”, che ripieni di mollica e formaggio facevano bella vista sulla tavola imbandita della domenica di Pasqua.Le donne sempre portavano in chiesa candide calle, gialle trombette e teneri germogli di grano per la preparazione del Santo Sepolcro. Le massaie si riunivano già dalle prime ore del mattino per preparare quei dolci che affondano le radici nel lontano mondo greco. Le “pie” nel Vibonese o “pittapia”, porterebbero il nome delle "Anime Pie," ossia, ricorderebbero le donne che pregarono versando lacrime sulla tomba di Cristo per la sua morte. Il nome varia da zona a zona, sono dolci fatti sia con pasta frolla più friabile, sia con pasta più dura all’esterno e morbida internamente con uno straordinario ripieno a base d’uva passa a cui venivano aggiunti del vino cotto, del caffè amaro, gherigli di noci, mandorle tostate e sminuzzate, buccia di agrumi, chiodi di garofano, cannella e talvolta piccole quantità di marmellata d’uva: un composto preparato la sera prima in un tegame ampio e basso di terracotta “a tiegjia”.Gli ingredienti si aggiungevano lentamente e si mescolavano e si rimescolavano sul fuoco lento mentre un profumo inconfondibile rapiva piacevolmente le narici e conquistava le umili cucine dei contadini. All’impasto si davano forme differenti e talvolta simboliche: la campana, la colomba, il pulcino, la scarpetta o il cuore che richiedevano una particolare abilità che non tutte possedevano. Allora si creavano vere e proprie squadre ben coordinate: alcune filavano realizzando piccoli dischi spessi alcuni millimetri, altre davano abilmente le forme e altre ancora le spennellavano con un po' d’uovo prima di sistemarle nelle “lande”, recipienti di latta con cui venivano trasportate al forno. Le donne trasportavano sul capo le “lande” in un lento andirivieni per le vie animate da bambini in festa. Tutta una serie di procedimenti che si ripetevano con riti antichi e preziosi.

I biscotti “durci i casa”, o “biscotti d’ova d’ova”, perché fatti solo con farina e uova, erano a forma di piccole ciambelle, di esse oppure di vrazza mentre la glassa rappresentava la caratteristica distintiva: “U scileppu”, un composto di acqua e zucchero con l’aggiunta di buccia di limone grattugiata. Il composto veniva versato bollente sui dolci ed ecco che rapidamente la massaia iniziava a girarli affinché si impregnassero a fondo poiché man mano che il composto si asciugava, si schiariva e si induriva fino a diventare una glassa dolce e bianca rendendo i dolci speciali per grandi e piccini, poveri ma molto apprezzati.Sono ancora oggi per il vibonese dolci di straordinario valore, un dolce assolutamente straordinario che non può mancare sulle tavole calabresi per il periodo pasquale.C’erano poi i biscotti con le mandorle che richiedevano una cottura delicata e un procedimento a parte. In un tegame basso si tostavano lentamente le mandorle, senza fretta sulla brace e al contempo si preparava un impasto omogeneo e morbido da dividere in filoncini da infornare una prima volta; appena diventavano rosati si toglievano dal forno, si tagliavano a “fette”, spicchi sottili dall’aroma intenso, piene di mandorle tagliuzzate e si infornavano una seconda volta perché diventassero dorati e croccanti. Si gustavano il giorno di Pasqua e di Pasquetta, inzuppati in un poco di anice o in qualche dito di un buon vino locale liquoroso.Tutti i pezzetti di pasta, rimasti dalla realizzazione delle “pie”, venivano nuovamente impastati e stesi; poi con i rebbi della forchetta si tracciavano dei leggeri solchi sull’impasto che, mediante una rondella, si tagliava in quadrotti dalle forme tozze che si cospargevano nella parte superiore con dello zucchero. Questi biscotti erano apprezzati da grandi e bambini che li consumavano nel caffè, nell’orzo, nel latte e, gli adulti, anche nell’acqua.Nel paese aleggiava l’intenso profumo dell’ammoniaca e un fumo chiaro si sollevava dai forni sempre attivi perché, oltre a realizzare i dolci, le massaie preparavano anche il pane che si consumava in grande quantità a Pasqua e soprattutto a Pasquetta. Su alcune piccole ciambelle di pane si poggiavano delle uova che, infornate, venivano portate Lunedì dell’Angelo per la scampagnata.La settimana Santa era caratterizzata da un intenso fervore e da un sentimento di malinconia, di preparazione e di rinascita di cui l’aria era fortemente intrisa. La morte imminente avrebbe portato con sé il germe della vita e la possibilità di redenzione per gli uomini.Fiorivano grandi cespi di fresie e di candide calle nel terreno a ridosso delle case e un suono rauco e primitivo richiamava adulti e bambini alla funzione del venerdì di passione.Nenie struggenti accompagnavano in processione la vara, una sorta di portantina che rappresentava la bara del Cristo morto; subito dietro, portata in spalla, procedeva la Madonna Addolorata e una persona con una tunica conduceva una grande croce sulla spalla. Le fiaccole venivano strette tra le mani dei fedeli e vacillavano le fiammelle e i volti se ne stavano chiusi nei neri fazzoletti come il cielo in quella notte in cui le stelle sembravano spente. Si ritornava in chiesa e si rimaneva a veglia di quel sepolcro nudo e freddo tra drappi e germogli di grano.


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