La Chiesa di Sant'Adriano San Demetrio Corone (CS).


 di Maria Lombardo 

Tutti i dettagli di un gioiellino poco conosciuto della Calabria.

Nel cuore dell’Arberia, ai piedi di una montagnola detta Montesanto, sorge uno degli edifici cristiani più rilevanti della Calabria: la Chiesa di Sant’Adriano, un autentico capolavoro dove eleganza e bellezza si fondono in un’estetica misteriosa e assieme seducente. Fondata da San Nilo da Rossano con i suoi tre discepoli Stefano, Giorgio e Proclo, a San Demetrio e su un terreno di proprietà della sua famiglia fondò il suo ascetario, divenuto poi un Cenobio costruito in fango e mattoni, accanto ad un tempietto preesistente dedicato ai santi martiri Adriano e Natalia. San Nilo rimase qui per 25 anni, fino al 980, e ad esso si unirono altri santi uomini: volle che questo monastero fosse assai povero, rifiutando anche il titolo di egumeno, che fece attribuire allo ieromonaco Proclo di Bisignano e gettò le basi per creare un'istituzione monastica greca che aveva come compito la riunificazione tra le chiese di oriente e occidente. Abbandonata per molto tempo poi venne ricostruita dai normanni nell’XI secolo e nel 1088, il duca Ruggero Borsa, figlio di Roberto il Guiscardo, la donò ai monaci benedettini di Cava dei Tirreni, così da poter latinizzare questo territorio dove ancora era predominante il rito greco. I monaci Basiliani la ricostruirono nuovamente ex novo e riportarono il rito greco.

Finché nel 1794 re Ferdinando IV, venendo incontro alle istanze degli Albanesi, vi trasferì, da S. Benedetto Ullano, il Collegio Corsini, assegnando a questo il ricchissimo ed esteso patrimonio dell‘antico monastero. I pochi monaci rimasti furono estromessi con la forza, dividendosi nei vari monasteri greci vicini. Il trasferimento era stato deciso perché il monastero dei monaci basiliani di Sant’Adriano possedeva più ricche entrate e avrebbe potuto ospitare un numero maggiore di studenti, sia quelli indirizzati a missione sacerdotale, sia quelli alle varie professioni. Infatti fin dall’inizio accanto ai seminaristi venivano ospitati convittori con lo scopo di seguire gli studi da laici. Tra i tanti studenti si ricorda il sandemetrese Girolamo De Rada, padre della letteratura albanese moderna. Un importante organismo religioso e culturale per la conservazione del rito orientale, delle tradizioni e del patrimonio identitario arbëreshë. Si effettuarono però nuovi lavori di ampliamento e demolizioni che modificarono profondamente l’aspetto di questo antico luogo. Fu edificata una nuova zona presbiteriale provvista di cupola, un campanile e successivamente, nel 1856, l’allora rettore Rodotà fece distruggere l’atrio antistante e il portale della facciata con protiro sorretto da leoni stilofori; fu ristrutturato il campanile dopo il terremoto del 1913. Ai primi del Novecento, in uno dei suoi viaggi, Norman Douglas visitò la chiesa caduta ormai in rovina e adibita a deposito per la legna. Nei decenni successivi si effettuarono a più riprese una serie di restauri che riportarono la chiesa al suo primitivo stato: fu riscoperto l’antico rosone posto sopra l’arco absidale, furono riportati alla luce alcune delle finestre in facciata e parte degli affreschi che adornavano l’antico edificio, si individuarono al di sotto del piano pavimentale le fondamenta dell’abside normanna. Solo nel 1979 venne demolita l’ala del collegio addossata alla facciata e parte del lato settentrionale, operazione ultima che ripristinò in parte la fisionomia dell’antico edificio di culto. Il prospetto frontale presenta una spoglia facciata a spioventi in muratura, realizzata con conci in pietra di grosse dimensioni, interrotta solo da tre aperture, che lasciano intendere la tripartizione interna delle navate. I due prospetti laterali sono decorati da una serie di archetti pensili che corrono sotto la linea di gronda del tetto, scanditi in gruppi di tre da sottili lesene che poggiano su un alto zoccolo in cui sono presenti incavi circolari dal gusto tipicamente orientale. Chiuso nel 1856 il portale principale l’accesso alla Chiesa è oggi garantito da due ingressi laterali: il portale meridionale, sotto il grosso campanile in pietre e mattoni, è composto da un arco a sesto acuto a doppia ghiera, mentre quello settentrionale, denominato “Porta dei Monaci” perché consentiva l’accesso alla Chiesa dei monaci dall’attiguo Collegio italo-albanese, è a tutto sesto. Quello settentrionale è maggiormente decorato infatti sono presenti motivi vegetali ed astratti nelle due mensole di appoggio alla lunetta, mentre a metà altezza dello stipite sono presenti due mascheroni: uno dalle sembianze feline e l’altro antropomorfo dalle cui bocche di entrambi fuoriesce un doppio caule che circonda i capi, di stampo prettamente romanico. All’interno le tre navate (lunghezza totale di 25 metri per 13 di larghezza), orientate ad Est, sono a copertura lignea e quattro arcate fiancheggiano la navata centrale sorrette da colonne antiche e da sei pilastri di fabbrica. Un arco trionfale ad ogiva porta al presbiterio, originariamente terminante in un’unica abside semicircolare, sacrificata per far posto all’attuale transetto barocco. Sopra l’altare maggiore, datato 1731 e attribuito a Domenico Costa, campeggia una tela del Martirio di Sant’Adriano probabilmente del pittore Francesco Saverio Ricci. Nelle due nicchie ai fianchi della tela, sono collocati due busti lignei del 1600 raffiguranti Sant’Adriano e Santa Natalia. Nell’altare a sinistra è raffigurata la Madonna con San Nilo e San Vito, mentre in quello di destra è raffigurato San Basilio. In fondo alla navata centrale è collocata una cupola barocca dove è raffigurato il Creatore con Santi monaci, Suore e San Nilo in preghiera davanti al Cristo in Croce e la mano destra protesa nell’atto di benedirlo. In fondo alle navate si trovano due rare colonne lignee del XIII secolo. Sono presenti anche delle sculture: un capitello bizantino del X secolo adattato ad acquasantiera, una conca ottagonale presumibilmente d’epoca normanna, la rappresentazione di una mano che fuoriesce dalla bocca di un serpente tenendo una catena di anelli e un coperchio del X secolo. Si tratta di opere di botteghe locali, facente parti di quell’arte che l’archeologo Paolo Orsi definisce basiliano calabrese, in quanto influenzata dalla cultura bizantina al tempo dei normanni. Ma nella Chiesa di Sant’Adriano il capolavoro assoluto è il pavimento in “opus sectile”, realizzato tra il XII e il XIII sec, con mosaici sorprendenti raffiguranti misteriose figure zoomorfe: un serpente, con la bocca spalancata e la testa nera sovrastata da un corno, che si avvolge in tre strette spire; un vigoroso felino dal corpo a riquadri policromi; un altro serpente, composto di minute tessere triangolari, che disegna con le sue spire il numero otto; un serpente ed una felino che si affrontano e si contendono una irriconoscibile preda. In esse il significato simbolico si coniuga con l’elemento decorativo per creare qualcosa di fantastico che possa incarnare lo spirito di quel tempo. Si presume che l’intera pavimentazione fosse decorata in origine con disegni geometrici, di cui oggi solo la metà è giunta a noi, mentre il rimanente è rivestita con mattonelle, frutto dei restauri del XX secolo. Paolo Orsi sostenne che i materiali utilizzati nel pavimento provenissero dall’antica città di Copia non lontano da San Demetrio Corone. All’interno della chiesa di Sant’Adriano non solo il pavimento presenta delle decorazioni, ma anche le pareti. In origine gli affreschi decoravano tutte le pareti della chiesa, ma solo una parte è giunta fino a noi. Essi furono scoperti fortuitamente nel 1939, durante gli interventi di restauro di Armando Dillon che li rinvenne al di sotto di uno strato di calce apposto probabilmente dagli stessi monaci del monastero alla fine del Settecento, forse per cancellare ogni traccia dell’antica presenza bizantina. Gli affreschi sono stati datati tra il XII e il XIII secolo. Il ciclo si svolge lungo la navata centrale, nei sottarchi e nei muri circostanti agli archi delle navate minori. Il programma figurativo è prevalentemente iconico e attinge al repertorio agiografico dell’Italia meridionale. Negli intradossi degli archi vi sono raffigurati santi stanti e isolati che purtroppo non hanno iscrizioni e per questo è assai difficile la loro esatta identificazione. Al di sotto di ogni arco sono inserite due figure di santi separate da un clipeo con motivo floreale, per un totale di sedici santi, di cui solo dodici esistenti per intero, due frammentari e due totalmente scomparsi. Altri affreschi si trovano nel muro interno della navata nord dove troviamo una serie di santi, tutti di sesso maschile, mentre nella navata sud troviamo figure di sante, le uniche identificate: S. Giuditta, S. Anastasia e S. Irene. In questa navata troviamo anche una scena narrativa: la presentazione della Vergine al tempio composta da numerose figure: la Vergine condotta al tempio da Gioachino e S. Anna e affidata al sacerdote Zaccaria vicino ad un ciborio, oltra ad una processione composta da sette fanciulle con lampade accese. Un luogo importante quando si parla della Chiesa di Sant’Adriano è senza dubbio il vicino Eremo, un anfratto naturale nella roccia presente tra gli incantati silenzi del vallone Sant’Elia, dove il Santo di Rossano si ritirava in orazione e in contemplazione ascetica. Dopo la morte di San Nilo, avvenuta a Grottaferrata nel 1004 a 94 anni, il luogo non fu dimenticato dai monaci del monastero sovrastante, i quali, davanti alla grotta, eressero una cappella in memoria del loro confratello. Attaccata ad essa, fu edificata anche una cella per il monaco custode. All’interno della chiesetta, la cui volta è crollata in tutta la sua lunghezza molto tempo addietro, resiste ancora la zona absidale dove è presente un affresco, ormai sbiadito, risalente al XVI o XVII secolo, di autore ignoto, raffigurante San Nilo orante di fronte al crocifisso. Anche le pareti laterali erano un tempo affrescate, come dimostra una traccia sul lato destro. Una curiosità: i particolari ancora superstiti appaiono maggiormente bagnando la pietra. Di indubbia e importantissima rilevanza storica e artistica, memoria storica di uno dei padri fondatori della spiritualità cristiana in Calabria, il sito versa oggi in uno stato di completo abbandono. L’icona, deturpata già a partire dal XIX secolo dalle scritte lasciate dai visitatori per attestare il passaggio presso quei luoghi, subì ulteriori sfregi agli inizi del ‘900, i quali riguardarono la parte relativa al volto del santo riprodotto nell’affresco. Nel 1995 la storia si ripete, infatti, i vandali di turno, forse in cerca di chissà “quale tesoro” nascosto dietro l’affresco, rovinarono gravemente a colpi di piccone la parte inferiore dell’immagine. Ovviamente in entrambi i casi, nonostante le segnalazioni e l’indignazione dell’opinione pubblica, non venne operato nessun tipo di restauro e, a quanto risulta, né vennero recuperati i pezzi di intonaco divelti dal dipinto, al fine di custodirli provvedendo col tempo a garantire il loro ripristino. Si giunse così al 2004, quando all’affresco viene dato il commiato finale, attraverso la scritta “Cia” apposta su di esso mediante bomboletta spray nera. Un vero peccato perché è uno dei pochi luoghi in Calabria dove ancora la spiritualità e la natura incontaminata si fondono per creare un’atmosfera di armonia e vera pace dei sensi. Ho preferito attenermi minuziosamente alle parole dei bravi Mistery Hunters non me ne vogliano.


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