La Calabria diede alla storia grandi antifascisti ma fu la culla del neofascismo
di Maria Lombardo
E’ una storia che mi fa fatto riflettere e vorrei che molti
lo facessero in questi tempi: neri! Ci catalputiamo idealmente in un processo particolare e bizzarro, che vanta
almeno un record: fu il primo maxiprocesso calabrese del dopoguerra.Vi finirono
in ottantotto alla sbarra. Non erano mafiosi né delinquenti. Ma solo fascisti,
disposti a restare tali a tutti i costi. E qualcuno lo pagarono. Tutto inizia
il 28 ottobre 1943 e in Calabria la guerra è – più o meno – finita. Se ci fosse
ancora il fascismo, anche i calabresi celebrerebbero il ventennale della marcia
su Roma. Il Calabria c’è chi non si dà per vinto, malgrado il Regime è
capitolato. In quei mesi le riviste antifascista vengono devastate a Nicastro,
la città viene tappezzata di volantini che inneggiano al Fascismo. AHIMè! I
fascisti colpiscono con ordigni uffici e caserma dei carabinieri. Un biennio
difficile per il lametino, si colpiscono scuole, municipio e la sezione del Pci
di Nicastro. La notte del 23 marzo mani
ignote depongono fiori sulle tombe dei soldati tedeschi seppelliti nel cimitero
di Nicastro. Forse le stesse mani, qualche ora prima, hanno strappato i
manifesti dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata.I carabinieri non hanno
quasi dubbi. Anzi, hanno un teorema. Intendiamoci: non ci vuol molto a capire
che gli autori di quelle bravate sono fascisti irriducibili. L’OSS si mette in
moto e scova il marchese Gaetano Morelli, che a dire il vero qualche indizio di
troppo lo ha seminato. I militari trovano in un fondo silano del nobiluomo un
arsenale coi controfiocchi: undici moschetti calibro 91, caricatori più che in
proporzione e due casse di bombe a mano. Tutte armi militari, trafugate da
ufficiali dell’esercito. Luigi Filosa poi una gran testa così calda da meritare
un approfondimento a sé. Lo chiamavamo il fascista “rosso”!L’avvocato indossa la
camicia nera, ma pensa in rosso: attacca i latifondisti e non risparmia critiche
allo stesso Mussolini.Viene silurato per le sue frequentazioni antifasciste (in
particolare, col repubblicano Federico Adami e i comunisti Giulio Cesare Curcio
e Salvatore Tancredi).Espulso dal partito, subisce prima l’ammonizione (1926) e
poi, nel 1931, il confino, da cui torna l’anno successivo grazie all’amnistia
concessa per il decennale della rivoluzione fascista.Oltre Filosa e Pignatelli,
finiscono nella retata ottantotto persone. Tra queste, si segnalano alcuni notabili
del fascismo cosentino.Sono Orazio Carratelli, ex direttore di Calabria
Fascista e Rosario Macrì, sciarpa littorio e fiduciario del gruppo “Carmelo
Rende”. Un paradosso riguarda Pietro Morrone, già federale di Cosenza dal ’30
al ’36 e fresco reduce di guerra: la cronologia fa di lui un “persecutore” di
Filosa. Nella retata, vi sono molti giovani. Alcuni di loro diventeranno volti
noti.È il caso, a Cosenza, di Teodoro Pastore, Beniamino Micciché ed Emilio
Perfetti. Con loro, finisce in gattabuia Vittorio Bruni, sottotenente del
16esimo Reggimento di fanteria di stanza a Cosenza. Per i quattro l’accusa è di
traffico d’armi.Occorre ricordare un paradosso di questo primo maxiprocesso
della Calabria del dopoguerra: i fascisti sperimentarono sulla propria pelle le
leggi fascistissime di pubblica sicurezza e il Codice Rocco non ancora
emendato. Stranezze e bizzarie il motto!Alcune di queste, forse, sono dovute
alla scarsa volontà di condannare per davvero i reprobi.Molto si gioca
sull’insufficienza di prove, che impedisce di ricostruire, ad esempio, i
rapporti tra i Pignatelli e gli altri imputati. Altro, invece, è affidato
all’estro dei difensori e degli imputati stessi, soccorsi a un certo punto,
dagli antifascisti.Filosa rinuncia ai suoi legali. riesuma il Filosa
antifascista ed esibisce il casellario penale come un medagliere.La strategia
riesce, anche perché intervengono a favore dell’avvocato tre big
dell’antifascismo: Fortunato La Camera, leader regionale del Pci, Luigi
Pappacorda, segretario provinciale del Partito d’Azione, e don Luigi Nicoletti,
sacerdote e segretario della Dc. Un soccorso “rosso”, ma pure bianco, con tutti
i crismi. Gaetano Morelli accusa i carabinieri lo avrebbero bastonato, dice, per farlo
“cantare”. Con una sola differenza: nessuno gli ha somministrato l’olio di
ricino.I quattro giovani cosentini, invece, si accusano a vicenda: Perfetti
accusa Pastore e quest’ultimo nega. Bruni, invece, ammette di aver rubacchiato
delle pallottole, ma solo per andare a caccia. In questo caso, è evidente il
tentativo della difesa di far saltare l’accusa di associazione a delinquere.L’8
aprile 1945 arriva il verdetto. Qualcuno la fa franca per non aver commesso il
fatto. È il caso di Mazzotta, Carratelli, Macrì e Morrone.Luigi Filosa, che da
neofascista riceve una condanna più pesante di quelle subite da antifascista:
otto anni.La maggior parte degli accusati busca pene che vanno dai quattro ai
dodici anni.Ma, notano i cronisti dell’epoca, tutti accolgono la sentenza con
un’ennesima guasconata: non appena il presidente smette di leggere, cantano
Giovinezza, l’inno del Ventennio ormai alle spalle. Gli avvocati scovano un po’
di cavilli e vanno in Cassazione.Quest’ultima annulla e fa ripartire il
processo. Che non si svolgerà mai, perché nel frattempo Togliatti ha lanciato
la sua amnistia.Tuttavia, è anche un esempio di lottizzazione dei fascisti. La
Dc, infatti, mira a burocrati e dirigenti che avevano fatto carriera nel
Ventennio. Il Pci fa incetta di intellettuali e sindacalisti. Per gli altri ci
sarà il Msi, nato come “casa rifugio” per gli impresentabili e, quindi,
irriciclabili.Ma tant’è: anche questi compromessi sono alla base della nostra
democrazia.
La solita Calabria e Viva L'ANTIFASCISMO sempre!
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