1743, quando Casanova fuggì dalla Calabria: «Abitanti come animali». Eppure era periodo borbonico!
di Maria Lombardo
E’ successo davvero ed in periodo Borbonico per giunta, il celebre seduttore appena diciottenne fu
ospite del vescovo di Martirano ma scappò dopo tre giorni dall’arrivo: «La
gente di quel posto mi faceva vergognare di appartenere al genere umano”.
Eppure in barba alle ciance neomeridionaliste che vedono una Calabria
ricchissima sotto i Borbone, il 1743
vede al governo Carlo III uno dei migliori Sovrani di casa Borbone. Alla fine
la situazione delle Calabrie era deplorevole da terra di periferia, una
periferia abbandonata a se stessa! Le
parole di Giacomo Casanova non furono certo incoraggianti fin dal
principio, così scrive nelle nelle sue Mémoires: «Durante il viaggio fissai i miei occhi sul
famoso Mare Ausonium. Ero felice di trovarmi al centro della Magna Grecia, che
il soggiorno di Pitagora aveva reso celebre ventiquattro secoli prima.
Osservavo con meraviglia la terra famosa per la sua fertilità, nella quale,
però, malgrado la prodigalità della natura, notavo solo miseria: mancavano
tutte quelle belle cose superflue che rendono migliore la vita, e gli abitanti di quel posto
mi facevano vergognare di appartenere al genere umano». Ma perché Casanova
si trovava in Calabria? Doveva lavorare presso il vescovo
di Martirano, nel
Catanzarese, la cui diocesi sarebbe poi stata soppressa, in buoni rapporti con
la sua famiglia. Poco tempo prima Casanova era stato imprigionato nella sua
Venezia per il carattere turbolento. L’affidamento al prelato poteva quindi
essere inteso quasi come una sorta di esilio per “forgiarlo”. Ma durò
pochissimo. Tre giorni vi rimase e scappò a gambe levate, si sentì inorridito dai
suoi abitanti: «Il lavoro è aborrito, tutto si vende per prezzi
vili, la gente si sente sollevata da un peso quando trova qualcuno che accetta
in dono le varietà di frutti che possiede. Trovai che i romani non hanno poi
tutti i torti di chiamarli bruti invece che Bruzi». Ed ecco che
racconta dell’arrivo a Martirano parole poco confortanti: «Mi incontrai con il
vescovo Bernardo de Bernardis, seduto ad una misera tavola, dove stava
scrivendo. Si alzò per salutarmi, e invece di benedirmi, mi strinse tra le
braccia. La casa era abbastanza grande, ma mal costruita e mal tenuta. Era così
scarsamente ammobiliata che per farmi fare un brutto letto, nella camera
accanto alla sua, dovette cedermi uno dei suoi durissimi materassi. Il pranzo era così povero
che mi spaventò. Per il suo attaccamento alla regola mangiava di magro; l'olio
comunque era pessimo. Tuttavia era un uomo molto
intelligente, e soprattutto onesto. Quando gli chiesi se aveva dei buoni libri,
una compagnia di gente letterata, qualche persona raffinata con la quale
passare con piacere un paio d'ore, lo vidi sorridere. Mi confidò che in tutta la sua diocesi
non c'era nessuno che potesse vantarsi di saper scrivere bene, e ancor di meno
che avesse del gusto, una minima cultura letteraria; non c'era neanche un vero
libraio, né un amatore che leggesse il giornale. Mi promise
tuttavia che avremmo coltivato insieme le lettere quando gli fossero arrivati i
libri che aveva ordinato a Napoli. Ma come potevo pensare di stabilirmi in quel
posto, nel quale non c'era una buona biblioteca, un circolo, una corrispondenza
letteraria, avendo solo diciotto anni?». Non era il posto per un giovane
raffinato e dei calabresi non disse cose
lusinghiere: «Il giorno dopo andai alla sua messa, e vidi tutto il clero, le
donne e gli uomini che riempivano la cattedrale. Fu proprio in quel momento che
presi la mia decisione, ritenendomi fortunato di poterla prendere. Avevo visto solo degli
animali che mi parvero scandalizzati dal mio aspetto. E poi com'erano brutte le
donne! Dissi chiaramente al vescovo che non avevo la
vocazione di morire martire in pochi mesi in quella città». Lasciò Martirano ma
si fermò a Cosenza: «L'arcivescovo del luogo, uomo ricco e intelligente,
volle ospitarmi da lui. A tavola feci l'elogio del vescovo di Martirano,
ma parlai
spietatamente male della sua diocesi, e poi di tutta la Calabria, in
modo così deciso che l'arcivescovo ne rise con tutta la compagnia, in cui due
donne, sue parenti, facevano gli onori di casa. Fu la più giovane che mi disse
che la satira
che avevo fatto del suo paese era troppo severa. Mi dichiarò
guerra: ma io la calmai dicendole che la Calabria sarebbe stato un paese adorabile se
solo un quarto degli abitanti le fosse somigliato.
L'arcivescovo, forse per dimostrarmi il contrario di quello che avevo detto, il
giorno dopo diede una grande cena. Cosenza è una città in cui gli uomini ricchi
possono divertirsi, poiché c'é una ricca nobiltà, delle belle donne, e delle
persone colte. Partii il terzo giorno, con una lettera
dell'arcivescovo per il celebre Genovesi. Viaggiai con cinque persone, che mi
parvero corsari o ladri di professione. Perciò evitai per tutto il viaggio
di far capire che avevo una borsa ben fornita. Dormii con i pantaloni,
non soltanto per paura che mi rubassero i soldi, ma anche per una precauzione che
credevo necessaria, in un paese in cui il gusto delle cose strane è diffuso.
Arrivai a Napoli il 16 settembre (1743)».
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