In Calabria tra fine Dicembre e inizio di Gennaio da secoli si rinnova il tradizionale rito della macellazione del maiale.
di Maria Lombardo
L’allevamento e macellazione di
questo suino era considerato un prodotto alimentare indispensabile dai nostri
avi. Fino a qualche anno fa infatti non esisteva un nucleo familiare che non
allevasse un maiale per nutrirsi delle carni di esso. Carni gustosissime che
costituivano il primo fabbisogno energetico giornaliero.
Il maiale, prima della sua
uccisione, veniva acquistato e fatto ingrassare dopo lunghi mesi di sacrifici
da parte della famiglia contadina. La macellazione andava dalla festività di
Santo Stefano fino al giorno dell’Epifania. La mattanza si consumava in maniera
abbastanza pittoresca e andava fatta dotandosi di coltelli di vario genere. E
ogni persona aveva un ruolo ben preciso, da chi preparava il povero animale a
chi puliva le cuoia con dell’acqua bollente. C’era poi anche chi girava il
sangue che sgorgava come una fontanella dalla carotide dell’animale affinché
non si coagulasse per fare il sanguinaccio. Il maiale veniva cosi sezionato in
due parti, con le quali si costituivano i capicolli, le soppressate, la
pancetta e le salsicce ed altri prodotti che ho illustrato nel blog. La testa
invece era utilizzata per la preparazione della gelatina, chiamato anche “suzu”.
Le donne preparavano il sugo con la
carne macellata fresca di maiale e si alzavano prima dell’ alba per impastare
la pasta in casa. I parenti più stretti aiutavano in cucina e si davano da fare
in modo che per pranzo tutti dovevano sedere a tavola e gustare le prime carni
del maiale sorseggiando i migliori vini
L’aspetto più bello di questa
cerimonia era senz’altro il banchetto. Il giorno dell’uccisione infatti
venivano invitati parenti e amici a casa per ritrovarsi insieme a mangiare e
bere. Il pranzo si svolgeva tipicamente a base di “frittule”, “vrasciole”,
“costolette alla brace”, “purpettuni e cavolfiore”, “maccarruni fatti in casa”
e contorno di funghi. Il tutto era accompagnato da buona musica nostrana, con
balli e tarantelle davanti al focolare.
Ma l’ultimo appuntamento era il più
atteso: ci si ritrovava davanti ad un grosso pentolone, “a quadara“, per
gustare quelli che erano i resti del maiale. Solitamente rimanevano le
“cotiche”, il “lardo” e i “frisuli” (avanzo di pezzetti di carne dell’animale).
Un vero e proprio evento dove venivano invitati amici e parenti. Nel corso
della serata non mancava la melodia degli “strinari”, i quali, informati della
festa, si autoinvitavano presentandosi puntualmente davanti casa per saggiare i
prodotti “da quadara”.
DAL WEB
MALEDETTI,mia madre raccontò tutta la vita di avere assistito a questo episodio e delle urla della povera creatura accompagnate dalla gioia...umana.. e poi erano suore.Spero solo che un battaglione di marocchini le abbia incontrate+
RispondiEliminaCar* Jessie, in qualche modo quei poveretti si dovevano cibare...
EliminaAnche mia mamma mi raccontava delle urla della povera bestia ma non unite a schiamazzi festosi, anzi mia madre lo ricordava con certo rammarico. Ma scandalizzarsi oggi forse non ha senso, le sensibilità sono cambiate, per fortuna, anche, e la fame è lontana. La fame ha visto tra gli uomini atti anche più macabri: il cannibalismo.
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