Quando con “ la Canzone di Zesa” i Napoletani durante il Carnevale ridicolizzavano i calabresi



 di Maria Lombardo

Non è la prima volta che vi parlo di questi temi! Quando il Carnevale Napoletano raggiunse il periodo di maggiore splendore, che la “Canzone di Zeza” iniziò a diffondersi per le strade della città, recitata da attori improvvisati e accompagnata dal suono del trombone.  La storia è quella dell’amore tra la figlia di Pulcinella, Tolla (o Vicenzella) con Don Nicola, studente calabrese, le cui nozze sono fortemente contrastate dal padre di lei che teme di essere disonorato, mentre sua moglie Zeza, che è di ben altro avviso, vuole far divertire la figlia "co’ ‘mmilorde, signure o co’ l'abbate". Pulcinella sorprende gli innamorati e reagisce violentemente, ma, punito e piegato da Don Nicola, alla fine si rassegna. Anche se si tratta di un testo “popolare”, si affrontano comunque, seppure in chiave grottesca, tematiche universali quali il conflitto tra le generazioni, la ribellione all’autorità paterna - rappresentata da Pulcinella - e la risoluzione dello scontro col matrimonio che, per certi versi, ricompone l’equilibrio familiare. La “cantata vernacola [...] sul gusto delle atellane che successero alle feste Bacchiche, alle Dionisiche e, quindi, ai fescenini e alle satire” e che “trae argomento dagli amori di un Don Nicola, studente calabrese, con Vincinzella, figlia di Zeza e Pulcinella”, si rappresentò nei cortili dei palazzi, nelle strade, nelle osterie e nelle piazze ad opera di attori occasionali o compagnie di quartiere, che si facevano annunciare a suon di tamburo e di fischietto e ben presto divenne un testo così famoso da essere conosciuto a memoria da tutti i ceti sociali di Napoli. Le parti femminili erano interpretate da soli uomini perché le donne non potevano essere esposte alla pubblica rappresentazione ed è una tradizione che si conserva ancora oggi. Nella seconda metà del XIX secolo, a seguito dell’emanazione di divieti ufficiali che ne proibivano la rappresentazione per le strade “per le mordaci allusioni e per i detti troppo licenziosi ed osceni”, la “Zeza” fu accolta, esclusivamente nel periodo di Carnevale, nei teatri frequentati soprattutto dalla plebe, dove il pubblico notoriamente interloquiva cogli attori nel corso della rappresentazione "con sfrenatezze di gergo e di gesti”. A causa di questi impedimenti,  la “Zeza” si diffuse quindi nelle campagne adiacenti e, con caratteri sempre più diversificati, nelle altre regioni del Reame di Napoli. Al giorno d’oggi la “Canzone di Zeza”  è una rappresentazione tipica della Campania e specialmente dei paesi dell’Irpinia: in generale possono cambiare i nomi dei personaggi e le battute dei dialoghi da paese a paese, ma alla base permane sempre lo stesso canovaccio. Ma volete sapere chi è Zesa? Quando un napoletano afferma, riferendosi a un esponente del gentil sesso: “Chella è ‘na zèza”, sappiate che non sta facendo ciò che si può definire propriamente un complimento. Riprendendo, infatti, un antico modo di dire, con questo termine si vuole indicare una donna che fa continuamente smorfie o vezzi, che si abbandona a smancerie di ogni genere e che è un’insopportabile chiacchierona, oltre che civettuola.

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