Il mio 8 marzo va a MARIA ELIA DE SETA PIGNATELLI: la Madonna Silana


 di Maria Lombardo

Non nacque calabrese ma amò profondamente la nostra Regione e specialmente la Sila. Nasce a Firenze ma all’età di 25 anni si rifugia nel bosco di Callistro, in Sila,  con un bambino malato in braccio.

Quella donna, “bellissima e affascinante”, ritratta nel 1937 dal pittore futurista Gino Severini (c’è anche un ritratto di Guttuso che però non si riesce a scovare), definita da Gabriele D’Annunzio «la Madonna silana» nelle liriche dell’Alcione, ma soprattutto colta, istruita in collegi tedeschi e inglesi, approda, il 1919, nel Gariglione, la secolare “foresta vergine” che piacque a Norman Douglas. Si legge, ed è come sentire la voce suadente della giovane in fuga «dal disfacimento sociale e morale che soffocava l’Italia» e alla disperata ricerca di una “patria” che, all’improvviso, come un destino le si dischiude nella montagna calabrese di cui perdutamente s’innamora.

Autrice di un testo fra diario-romanzo (specie i dialoghi con Corrado Alvaro) - saggio, “Introduzione alla Calabria”, iniziato nel 1920, e stampato da “Editrice casa del Libro” di Cosenza nel 1966, si firma Maria Pignatelli di Cerchiara. Omette il suo cognome da nubile, Elia; quello del marito, Giuseppe De Seta, un incidente di percorso subito rimosso dalla sua vita convulsa; e i titoli di marchesa e di principessa, avendo sposato, in seconde nozze, Valerio Pignatelli di Cerchiara, un capitano degli Arditi e, più avanti, comandante dei “Guardiani ai Labari” che “visse pericolosamente”, si batté a duello con Roberto Farinacci, e morì nel 1965 nella tenuta di Sellia Marina.È un libro complesso, a tratti ostico ma dalle annotazioni ficcanti, incentrato su una terra a cui la marchesa si avviluppa inestricabilmente. E per sempre, fino alla morte in un incidente d’auto di ritorno da Nicastro nel 1968 dopo aver visitato il castello Normanno. Un viaggio in Calabria che esordisce con Pitagora, che fugge da Samo dove «tutto è vecchio e logorato», penetrando, con perizia e fantasia, nella filosofia di una scuola aperta alle donne e che trovò a Crotone la terra gagliarda, si sofferma con ricchezza di note sui valichi dell’Aspromonte, le Serre, la Sila. S’incanta, quando s’imbatte in Gioacchino da Fiore che annuncia «le date del terzo Stato e il regno dello spirito», Cassiodoro, «l’unico romano sopravvissuto alle rovine dell’impero» intento a costruire «il suo emporio mondiale», Murat, San Francesco di Paola, e s’attarda estasiata nel descrivere le “vie della seta” e i viaggi di Federico II. Un tour che va avanti per anni e che, infine, la spinge a dedurre che «la Calabria non è un paese di musica, ma di pensiero, che, subito, crea formule e regole». Personaggio poliedrico e sorprendente, la marchesa: madre di Vittorio De Seta, “il poeta della verità” che s’iscrisse al Partito comunista nel ’47. Amica di Mussolini, amante del ministro Michele Bianchi, primo segretario del Partito nazionale fascista, ma anche amica di Paolo Orsi, Zanotti Bianco ed Edoardo Galli che la fece primo ispettore onorario per le antichità della Calabria. Decisamente, non un carattere docile. Tantomeno suggestionabile.  Ciò che si staglia con nettezza,  è l’amore incondizionato per la Calabria e i calabresi di una toscana tosta e determinata. La sua descrizione dei nobili catanzaresi cui era apparentata, è folgorante. Giunta da sola a Catanzaro marina nel 1919, lo descrive così: «Non c’era dove andare, nulla da mangiare e il paese era in un bagno di luce e di polvere bianca che lo scirocco caldissimo sollevava a polveroni. Sembrava un paese bruciato con le case rabberciate alla meglio. La sporcizia e l’abbandono vi regnavano, tanto che avevano distrutto più del terremoto e disfatto a tal punto da togliere anche la speranza di poter dare un aspetto umano a quei miserabili abitacoli. Ma la gente era bellissima di portamento nobile e cortese. Io non capivo una parola di ciò che dicevano».La giovane toscana s’imbatte nella precarietà del tempo: «Non c’era acqua corrente nella casa e nel cortile dalla fontanella ve n’era per due ore al giorno. Rimasi in estatica contemplazione delle donne in costume che trasportavano i barili d’acqua in testa. Per terra non lavavano mai e ci sputavano spesso: ma nella sala c’erano grandi mobili dorati dove si sedevano signori affabili tutti vestiti di nero. I vestiti erano di pesante lana nera anche con quel caldo nel mese di maggio e si tenevano i guanti di pelle lucida in mano. Si sedevano dritti nelle poltrone con grande sussiego e non si appoggiavano mai e dei servitori senza livrea servivano dei gelati in dei piattini sgocciolanti. I nomi mi sembravano buffissimi, molti avevano l’articolo che non tornava per genere e numero con il sostantivo che accompagnava». Nacque un amore tra la marchesa e la Sila che si coglie ancora adesso percorrendo i luoghi che l’hanno vista galoppare a cavallo o sul calesse col frustino in mano. Ricordano i tanti rapporti di amicizia della marchesa, Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Mario Missiroli. Ghitta Carrel, la fotografa ungherese della borghesia e dell’aristocrazia italiana tra le più quotate degli anni 30, tra cui Maria Josè amica della marchesa, ha firmato numerosi scatti su Maria Pignatelli e i suoi figli. Visse liberamente la marchesa. Se però è stata scordata dalle persone che l’hanno frequentata, mentre ancora gli storici brigano per decifrarla, di sicuro non l’ha fatto la grande madre Sila, «gentile e piena di luce», che l’accompagnò vivere, con coraggio e a tratti con spregiudicatezza, le sue passioni. Avercele, oggi, cento personalità con quella grinta.


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