Cosenza ed il moto carbonaro del 1837: i Borbone la sedarono nel sangue.



di Maria Lombardo

Inutile continuare le solite nenie neomeridionaliste non esisteva nessuna Calabria ricchissima e nessun calabrese che amasse la corona di Napoli. In Calabria la Carboneria era molto attiva!  Nel ’37 del 1800 Cosenza si stava preparando a mettere in atto il suo moto che i Borbone sedarono spietatamente, le condanne a morte inflitte come regali.  Tra i reati ascritti agli insorgenti, e che furono determinanti per la condanna a morte col terzo grado di pubblico esempio, ci fu anche quello di aver diffuso il colera con sostanze velenose. Ovvio che nessun carbonare aveva sparso polveri nell’acqua per decimare il popolo. A Cosenza il colera fece 600 vittime e nel mentre agiva il Comitato patriottico di Cosenza, composto da Domenico Abate, Luigi Pollano, Raffaele Laurelli, Carlo Calvello e Nicola Lepiane aveva deciso di organizzare un moto insurrezionale per il 22 luglio. Si unirono poi Pasquale Abate, Antonio Stumpo e il sacerdote Luigi Belmonte di Marano Marchesano, che concordarono il concentramento di un consistente gruppo di patrioti, provenienti da tutta la provincia di Cosenza, in località le Querce di Frugiuele. I liberali volevano entrare a Cosenza, occupare l’Intendenza e liberare i prigionieri politici nelle carceri. In seguito, da Cosenza si sarebbe dovuto proclamare la Costituzione. Alcuni vennero arrestati prima della data designata e l’insurrezione venne rinviata le staffette vennero inviate in tutta la Calabria Citra per avvisare di non andare a Cosenza. Non tutti vennero avvisati  e il 22 luglio
 Carmine Scarpelli di San Sisto si trovò sul posto. Il gruppo si ritrovò insieme ad altri patrioti a cui non era pervenuto l’avviso del rinvio. Alcuni compresero che qualcosa non era andato per il  verso giusto e rinunciarono, mentre altri, insieme ai prigionieri politici, anch’essi ignari del differimento dell’azione, decisero di proseguire nel tentativo insurrezionale. Lo Stato si mise subito in moto nella repressione ed inviò l’intendente Giuseppe De Liguoro con pieni poteri. Riuscì ad arrestare tutti i patrioti che avevano proseguito nel tentativo insurrezionale cosentino. Successivamente istituì una commissione militare con l’intento di imporre durissime condanne agli insorti, ma l’avvocato Gaetano Bova riuscì a provare l’incompetenza della commissione militare nel giudicare gli imputati, in quanto non erano stati trovati in fragranza di reato. L’intento doveva essere concluso e con l’aiuto del giudice  Matta di Aiello Calabro, cambiò il capo di imputazione, accusando gli arrestati di aver provocato il colera per avvelenamento, aggiungendo il reato di diffusione di proclami sediziosi contro il regime. Erano- come scrive testualmente Gabriele Petrone “argomentazioni tanto fantasiose da sfidare il senso del ridicolo”. Fu così che i carbonari vennero condannati ed uccisi
Carmine Scarpelli, Pasquale Abate, Luigi Clausi, Antonio Stumpo e Luigi Belmonte.
Per Benedetto Corvino e Antonio Zigari la condanna fu di “19 anni di ferri”. Saverio Benincasa fu condannato a 5 anni di prigione, mentre Raffaele Clausi a un anno e Annibale Scarpelli a sei mesi.
I cinque condannati a morte furono vestiti di un saio nero e condotti a piedi nudi nel Vallone di Rovito e lì fucilati.


Bibliografia:

Gabriele Petrone,  La Calabria che fece l’Italia. Il Risorgimento a Cosenza e in Calabria, Jonia Editrice, Cosenza, 2009

Commenti

  1. Il vallone Rovito dove giustiziarono anche i Fratelli Bandiera!!!
    complimenti per aprire pagine di storia, altrimenti condannata all'oblio!!!

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    1. Articolo interessante, visitai il vallone di Rovito molti anni fa quando ero militare a Cosenza

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