Domenico Piro e il territorio dell’erotico nella Calabria del Seicento: Duonnu Pantu


 di Maria Lombardo



Su don Domenico Piro, meglio noto come Duonnu Pantu, hanno scritto studiosi di storia regionale e critici letterari: da tutti viene annoverato tra i più grandi poeti dialettali calabresi accanto a Vincenzo Ammirà. Come l'Ammirà non venne apprezzato nel suo tempi per il contenuto erotico dei suoi versi in vernacolo. Fu un grande artista ma le sue opere non vennero mai stampate circolavano nei salotti e basta. Dobbiamo risalire all’Ottocento per trovare il primo e forse l’unico biografo attendibile del Piro. Il dotto Luigi Gallucci, anche lui poeta, raccolse con amore e competenza i componimenti ancora in circolazione presso famiglie borghesi di Aprigliano, tentando d’individuarne l’autore. Ha trovato una notevole mole di componimenti scritti in dialetto e di contenuto erotico che la tradizione attribuiva a Duonnu Pantu, ma in effetti appartenevano ad autori diversi. Il Piro nasce ad Aprigliano, città allora ricca e colta che nel Cinquecento e Seicento annovera intellettuali di valore. Nel cenacolo di Aprigliano, infatti, assieme al Piro, troviamo Domenico e Ignazio Donato, latinisti e giuristi, nonché gli zii del Piro e anch’essi sacerdoti. Secondo Luigi Gallucci Don Domenico è sicuramente l’autore de La Cunneide e de La Cazzeide, ma in tempi recenti, qualcuno attribuisce quest’ultimo componimento ad altro autore. Nel presente articolo seguiamo la tradizione che ritiene che proprio il Piro, ossia Duonnu Pantu, ne sia l’autore, anche se nel Seicento, ad Aprigliano, l’epiteto Duonnu Pantu veniva attribuito a tanti sacerdoti. La cazzeide e La cunneide hanno destato sempre grande scandalo nella cultura ufficiale dominante perché per la prima volta viene esplorato il territorio dell’erotico, ma anche ammirazione e apprezzamento perché in questi componimenti il dialetto calabrese diventa poesia e arte. Nella Calabria dominata dal dominio dispotico del Vicereame e da un sistema feudale opprimente, il popolo, analfabeta e affamato, i versi erotici di Piro potevano circolare solo in ambiti ristretti e tra amici colti e bontemponi, amanti del divertimento e della poesia. Se fossero stati diffusi l’Autore certamente sarebbe incappato nelle grinfie dell’Inquisizione spagnola o in quella della Chiesa di Roma. Ma il Vescovo di Aprigliano ebbe conoscenza dei versi del Piro e lo fece rinchiudere in carcere, diffidandolo di abbandonare la poesia erotica. Non ubbidì perchè la sua Musa gli ispirava proprio versi di contenuto erotico. Ciononostante non ebbe disturbi con l’Inquisizione, sia perché apparteneva a una famiglia dotta socialmente affermata, sia perché, secondo la tradizione, i suoi costumi erano morigerati e i suoi versi servivano solo per divertimento in strette riunioni di amici. Si parla del Piro come d’un sacerdote di grande ingegno e cultura, versato in tutto lo scibile del tempo, anche se mancano gli scritti da lui lasciati. Va ricordato che a pochi chilometri da Aprigliano operava la celebre accademia cosentina che, assieme agli altri ingegni, aveva annoverato anche il grande Telesio. Che il Piro fosse un poeta colto lo si vede anche nei due componimenti erotici che gli hanno dato grande fama. Il Poeta domina storia e mitologia. Ne La cazzeide, infatti, il poeta parte dal mitico regno di Saturno quando uomini e donne vivevano insieme felici, divertendosi senza malizia o gelosia. Il sesso apparteneva alla sfera del sacro e la moglie si concedeva solo al marito. Ma il poeta esce subito dal mito, si guarda intorno e s’accorge che il mondo è cambiato. “E mò curre nu sieculu puttanu,/ Ppe non dire nu sieculu cornutu…/ Le fimmine te mpacchiunu de manu, / Le pigli lu Diavulu pinnuta…”. Rivisita la mitologia classica ed elenca gli adulteri degli dei pagani per poi descrivere l’incontenibile bisogno sessuale delle donne e i vari artifici elaborati per appagarlo. I suoi versi sembrano ispirarsi a volte a un’orgia, a una festa dionisiaca con le baccanti ebbre scatenate. Le donne tutte, vecchie e giovani, secondo Piro, in preda alla pulsione erotica, dimenticano antichi tabù e infrangono regole religiose e morali. Osserva che i costumi sono cambiati, e non solo in Calabria: “Nun cc’è nulla persona e nulla razza/ chi di corna non sia pulluoru e trizza…”. E ancora: “Gapa la maritata lu maritu, /E raghi quantu vo, casu e salatu…”. Insomma nessuna donna sa trovare un freno dinanzi alle profonde pulsioni dell’eros. Dinanzi a questa situazione, non importa se vera o frutto di fantasia, il poeta prova un solo rammarico: “A mie mi dole ca me trovo vecchi, / E minne vorria mintere lu cacchiu../ Tantu chi si na vota micce spacchiu, / Ne vaju puturune na simana,/ Minne piglia la freve e la quartana”. Alcuni studiosi hanno voluto vedere in questi versi un chiaro riferimento autobiografico, concludendo che La cazzeide è opera d’un poeta già vecchio, diverso dal Piro morto giovane. Ma non siamo sicuri che detto riferimento sia autobiografico: potrebbe trattarsi d’una semplice finzione poetica. Il componimento finisce quasi con un invito ai giovani al carpe diem, sfruttando il potere della vis erotica giovanile: “Chiantati corna ppe tutti sti pizzi… Jati gridannu ppe tuttu lu munnu/ viva lu cazzu, lu culu, e lu cunnu”. Ne La cunneide c’è anche un poeta che ama una vita semplice e frugale, si accontenta di poche cose essenziali e professa una filosofia quasi stoica o autenticamente epicurea; Epicuro, infatti, consigliava solo i piaceri stabili, ossia quelli che poi non si trasformano in dispiaceri. La gente gira per il mondo in cerca di ricchezze, onori e potere, dice il poeta, mentre “Io mi la cugliuniju ad Apriglianu, / Cuntannu nu pallune, e na menzogna,/ E cantu comu fa la Zagarogna / a Carpanzanu”. E più avanti: “Tutti li sfirzi sfarzi di stu munnu / le tiegnu ngaravuottulu de culu/ Ca sta povera vita vorria sulu/ N’ugna de cunnu”. Segue un’elencazione delle donne d’ogni età, cultura, stato sociale, condizione fisica e religiosa con cui avere rapporti. “Cattive, maritate, e schiette io pigliu, / Ncamate, ricche nuobili e frabutte/ E giovenelle, vecchie e brutte/ cuomu nu nigliu”. Anche in questo componimento c’è l’esaltazione orgiastica del sesso o meglio dell’organo sessuale femminile. Grazie a questa orgia nascono però papi e re, letterati e giuristi, capitani e soldati, si genera insomma l’uomo. Ma oltre a generare la vita il sesso ha creato la civiltà. “A tiempu anticu l’uomini primari / Eranu arrassusia, tutti servaci, / Autru c amò la gente de Predaci/ Micidiarj”. Poi avviene il miracolo quando un uomo vede al fiume una ragazza mentre si lava l’organo del sesso. Di nuovo un ritorno al mito: “Veramente la fissa è nu trisuoru! / Giove ppe la liccare a europella/ Le celesti satau cuomu na mella/ Se fice tuoru”. E anche Marte “Ppe se sciacquare na vota lu cazzu/ Ne jiu prisune”. La castità, dice il poeta, è contro natura, è una repressione forzata d’un istinto profondo che nasce dall’inconscio: il bisogno di sesso è insomma pulsione vitale. “Sunnu palluni, favule e bugie/ Li Senuocrati casti e continenti;/ Chista cosi li dicu li ‘mputienti,/ Su ‘ppocresie”. Proprio per aver violato i tabù il Piro è stato messo in prigione dal suo Vescovo e non ha avuto guai più seri con l’Inquisizione perché le sue poesie circolavano in ambiti privati e solo per divertire un pubblico ristretto, colto e libero. Molti studiosi di Piro, dotati di grande cultura e di acume critico, come il Piromalli, hanno voluto vedere nelle sue poesie quasi una rivolta contro la retorica e il vuoto del barocco e gli ultimi epigoni del petrarchismo, nonché contro l’oppressione spagnola e feudale. Sembra che il Piro abbia scritto solo per divertirsi e divertire i suoi amici colti, letterati e buontemponi come lui. Ma, ispirato dalla Musa amica, ha lasciato opere artistiche ricche di fantasia e musicalità che sfidano i tempi. Forse, senza volerlo, è stato un rivoluzionario e un innovatore. Certo fu il primo grande poeta a usare il dialetto calabrese in maniera artistica e a chiamare col loro nome gli organi sessuali maschili e senza orpelli ideologici, morali, religiosi o tabù. Certo ci sono esagerazioni nelle descrizioni, scene orgiastiche, ma tutto questo non nuoce all’arte. Nei versi è presente una visione naturalistica e le immagini e i paragoni sono naturali e lievi. Piro non canta la bellezza dello spirito, le donne angelicate, esalta invece le pulsioni naturali del corpo. Questo ha suscitato scandalo e lo suscita tuttora perché “Li Senuocrati casti e continenti” nella realtà non ci sono più e forse non ci sono mai stati, però persiste un moralismo di facciata, una cultura ipocrita da Controriforma negativa. La gente si finge morigerata, parla in un modo e opera in un altro.


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