Lavandaie calabresi.





di Maria Lombardo



 Quello della lavandaia in Calabria come in tutto il Mezzogiorno era un lavoro a tutti gli effetti. Vi erano massaie che dovevano espletare questo faticoso lavoro per la propria famiglia e per i “gnuri”. Fino alla metà del secolo scorso per poter lavare queste donne dovevano recarsi alla fiumara! La fiumara era un’importante risorsa per la gente comune, specialmente per la donna calabrese in veste di lavandaia.Il rito del lavaggio dei panni iniziava in casa dove la massaia faceva “à vucata” ossia il bucato. Inizia con un prelavaggio a mano e olio di gomito col sapone di casa, l'arnese principale per svolgere questa tecnica. Forza e concentrazione erano all'ordine del giorno, la donna si caricava di una cesta in vimini di forma circolare adagiata su mattoni o pietre ben pulite. L'insaponatura come detto in calce veniva nell'aia di casa e perciò la biancheria veniva sfregata e torciuta, lasciata qualche minuto al sole di Calabria e poi posizionata a ruota “ ntà cofana”. Siccome però con tutto il bel da fare di “servizzi intà a casa” non si conosceva l'orario giusto per recarsi al fiume. Avvolte ci si recava nel primissimo pomeriggio! Quindi la cesta veniva ricoperta con un telo forte e coprente “u cinnerali” fatto di canapa o cotone. Si chiamava cinnerali poiché si usava uno strato di cenere passata al setaccio e rigettata di tanta acqua bollente. Acqua e cenere che alchimia particolare che sbiancava tutto il bucato. L’ultimo panno serviva da filtro a quest’acqua che impregnava quelli sottostanti. Era qualcosa di magico e strano quel misto che faceva diventare bianca e profumata la biancheria tessuta al telaio. Ogni famiglia aveva questi pezzi d'artigianato locale ed il ciclo economico produttivo permetteva a tutti il lavoro. Il liquido che però scolava dalla cesta era la liscìja, cioè la lisciva, e possedeva capacità detergenti elevate. Per questo era prezioso. Un miscuglio di cenere ricavata dal fuoco dei bracieri o dalla cucina a carbone, setacciata e messa a bollire per una diecina di minuti con dellíacqua ed ancora così calda versata sopra i panni. L'ultimo panno serviva da filtro a questíacqua che impregnava quelli sottostanti. Un'altra cesta più piccola faceva da coperchio e si lasciava tutto così per una notte. L'indomani la lisciva seccata lasciava sul telo di copertura dei piccoli granellini, andava quindi levato piano e scosso. Si poteva poi procedere al risciacquo finale dei panni ed alla loro stesura al sole che combinandosi con tutto il processo di lavaggio conferiva ai panni quel biancore particolare e quel profumo di pulito che tutte le più sofisticate proprietà dei moderni detersivi non ci daranno mai più. Anche la lisciva non si sprecava si conservava per lavare i capi delicati o per lavare i piatti i pavimenti ( se c'erano) mentre col primo liquido che usciva e che era davvero sporco lavava gli stracci.Col successivo, più chiaro, lavava i panni colorati e le maglie di lana, che poi sciacquava alla maniera della biancheria; puliva e disinfettava i letti, spesso invasi dai parassiti e, a dosaggi diluiti, puliva persino i capelli, per renderli lucenti e morbidi. Infine “cofina” in testa e forza energica ci si recava al fiume. Erano poche le case in cui era presente “ a ' PILICEDDA CU U "STRICATURI", aggiungerò alcune note storiche utili la pila con superficie laterale ruvida a scanalature arrivò nell'isola di Sicilia ed in Calabria già tra la fase degli emiri arabi e il florido regno normanno di Ruggero I di Sicilia. Infatti quando nessuna tecnologia attuale come lavatrici o quant'altro era presente in Sicilia e nelle sue isole minori, spesso borgate e paesi nella piazza centrale erano muniti di sorgive o fontane pubbliche per permettere la pulizia del bucato. Grazie al ruvido materiale pietroso con cui sono ricavate le pile, lo sporco più intenso veniva "grattato" più volte dopo aver inumidito il panno, scivolando via e dunque garantendo la pulizia. Fino a 60 anni fa circa era l'unico metodo al quale le instancabili donne si affidavano. Oggi soltanto le arzille donnine più anziane usano "a' pilicedda" per il bucato delicato e pregiato che è presente in molti cortili delle case.

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