Tipiche abitazioni di Monte Poro nel Vibonese: “ i pagghiari”
di Maria Lombardo
Edifici antichi fatti di fango e sudore, lentezza e dignità, da cui sono passati uomini e donne d’altri tempi, quelli che hanno costruito la nostra terra giorno dopo giorno, solco dopo solco. Sull’altopiano del Poro, è facile imbattersi in piccole strutture abbandonate tipiche di queste zone: i “pagghiari”. Questi casolari sono per la maggior parte ruderi abbandonati, ma ancora capaci di raccontare la vita portata avanti da quella categoria rurale che, per secoli, ha costituito la spina dorsale della Calabria.Sono centinaia, molti abbandonati, altri ancora sfruttati come ricoveri per attrezzi, pochissimi recuperati e vissuti per come dovrebbero. Nella zona del Poro si usava la pietra sottoposta a lavorazione per dare la forma voluta e poi incastrata una sull’altra e tenuta insieme da una malta di calce. Sul litorale, invece, si usava la “bresta”, cioè il mattone di fango e pula impastati insieme e poi essiccato al sole.Si tratta di un'architettura a carattere rurale – ci spiega -, non c'è stata mai un'operazione residenziale, tranne d’estate, quando ci si spostava dal paese e si viveva qui, in case molto fresche e vicino ai campi da coltivare. Si partiva da un'impostazione di base costituita dal blocco centrale a una falda e poi si aggiungeva la “pinnata” o la “pagghiarola”, la struttura laterale che serviva come ricovero estivo delle vacche o degli asini, indispensabili per il sostentamento». Nel portico del primo casolare visitato troviamo ancora i segni degli animali, costituiti dai fori in cui venivano fatte passare le corde, e dalla mangiatoia, ormai abbandonata ma ancora parlante.Gli interni erano altrettanto spartani! Generalmente avevano un piano terra dove c'era a “mangiatura”, cioè il ricovero delle bestie in inverno, e sopra si viveva, su un piano spesso costituito da tavole in legno dove si poteva mettere anche il fieno. Di solito non erano strutture con scale posticce in legno, ma in pietra, sempre esterne, e per le quali si lavorava la pietra a cuneo in maniera tale da formare un arco per sostenere tutta la struttura dei gradini».Tutte avevano vicino un pozzo costruito sempre in pietra con una struttura ad anello che terminava a “tolos”, a cupoletta, e in cima c’era anche l’alloggio per la “bumbuleja”, una piccola anfora che serviva per raccogliere l’acqua.Ma la quotidianità non era fatta solo ed esclusivamente di lavoro, era necessario curare anche l’anima:.Molto importante era il carattere religioso: all’interno o all’esterno si trovava sempre una nicchia in cui veniva esposta l’effigie sacra.Dagli anni sessanta in poi è venuto fuori il blocco di cemento: in modo molto veloce si tirava su la struttura senza dover lavorare la pietra o la bresta. Quella è stata un po' la morte di questi casolari!E, in effetti, ciò che balza maggiormente agli occhi è la condizione di incuria a cui sono lasciate queste perle: soffitti crollati, muri che sembrano colpiti da terremoti, porte divelte. È un colpo al cuore toccare con mano l’indifferenza nei confronti di quelli che potrebbero essere considerati i trulli calabresi. È triste vedere come non siano né valorizzati né tantomeno conosciuti. Pensate quanti giovani potrebbero provare a sviluppare un tipo di turismo che in questo momento non esiste e che potrebbe essere il futuro di questa terra. Spero tanto che questo reportage possa servire a smuovere le coscienze, perché, per amare qualcosa, prima di tutto la devi conoscere e questo potrebbe essere il mezzo giusto».
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