Quando i clandestini eravamo noi: anche i Calabresi


 di Maria Lombardo 

Gian Antonio Stella, nel suo libro “Quando gli albanesi eravamo noi”, ci ricorda che “….Quando si parla d'immigrazione italiana si pensa solo agli 'zii d'America', arricchiti e vincenti, ma nessuno vuole sapere che la percentuale di analfabeti tra gli italiani immigrati nel 1910 negli USA era del 71%.Nei primi decenni del '900 in Svizzera c’erano circa 30.000 bambini italiani clandestini, portati di nascosto dai genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle rigorose leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari, genitori terrorizzati dalle denunce dei vicini che raccomandavano perciò ai loro bambini: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. Davvero agghiacciante! Pensare che si scappava per stare meglio ma ora queste cose le abbiamo dimenticate. Prima degli anni ’50 gli italiani andavano a Bucarest per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere e alla scadenza del permesso di soggiorno restavano in Romania, clandestini. Nel 1942 il Ministro dell’Interno fu costretto ad inviare a tutti i Questori una circolare con la quale li si invitava a non far espatriare gli italiani in Romania.Tra la prima e la seconda guerra mondiale molti italiani andavano in America con passaporti falsi o biglietti inviati da pseudo parenti italo americani. In realtà una volta sbarcati li attendevano turni di lavoro massacranti perché ripagassero, senza stipendio, il costo di quel viaggio della speranza.Non sono aneddoti. E’ storia, tratta dalla Mostra “Tracce dell’emigrazione parmense e italiana fra il XVI e XX secolo” (Parma, 15 aprile 2009). I ruoli si invertono ma i clandestini restano anche se hanno un colore diverso. Fuggono da Paesi in cui l’unica prospettiva è morire per fame o morire per guerre volute da altri. Ed allora questa gente può solo correre, correre, correre impazzita verso il nord, verso il mediterraneo, verso quelli che credono essere orizzonti migliori.Sugli attraversamenti si avevano solo indicazioni di massima e comunque inquietanti. In Val d’Isère, ad esempio, per raggiungere Bourg-Saint-Maurice, nel settembre 1946 arrivavano in media 300 clandestini al giorno, toccando addirittura le 526 unità in un’occasione. In Val di Susa il comune di Giaglione dovette chiedere aiuto alla prefettura di Torino non avendo più risorse per seppellire quanti morivano nel disperato tentativo di valicare le Alpi. Nel 1948 il “Bollettino quindicinale dell’emigrazione” scriveva che quotidianamente in quel luogo passavano illegalmente in Francia “molto più di cento emigranti” e “due o tre al mese, almeno”, secondo un rapporto di un agente del Servizio di informazioni militare, non ce la facevano.Allora come oggi non mancavano persone senza scrupoli che lucravano sulle disgrazie altrui. Il sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprimo, sentì il dovere di far affiggere un manifesto nel quale si rivolgeva alle guide alpine. “Anche se compiono azione contraria alla legge – vi si leggeva – sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore, discernendo e accompagnando, cioè, soltanto quegli individui che appaiono loro chiaramente in condizioni fisiche tali da sopportare il disagio della traversata dei monti e scegliendo altresì condizioni di clima che non siano proibitive e non abbandonando i disgraziati emigranti a metà percorso”.Sessant’anni fa, dunque, i clandestini erano gli italiani, le Alpi il “mediterraneo” da attraversare verso l’agognata meta, alcune guide alpine gli scafisti dell’epoca. Ma in tempi in cui si parla non sempre con accenti benevoli degli immigrati e in particolare degli irregolari, in Italia – Paese dalla memoria corta e non sempre condivisa – sono in pochi ad avere coscienza di questo passato. E d’altra parte la pubblicistica ha sostanzialmente ignorato il fenomeno, interessandosi prevalentemente dell’immigrazione regolare, più facile da documentare e da seguire.


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