La pacchiana di Castrovillari (CS)
Maria Lombardo
Col termine “pacchiana” deve intendersi non solo la
contadina, ma in genere la donna di modeste condizioni da cui si distingueva la
signora, che vestiva secondo la moda del Regno di Napoli. Col passare del
tempo, il gusto di perfezionare e rendere prezioso un abito
originariamente poco ricco, la varietà e
la bellezza delle stoffe e dei colori utilizzati, e il fatto che finìper essere
indossato in feste e cerimonie, determinò l’uso della parola “pacchiana”
legandola ad una manifesta voglia di divertimento e di allegria, di canti e
tarantelle che facevano pensare alla cosiddetta “pacchia”, etimologia ben
diversa da quella del gergo corrente che sta ad indicare un modo di essere e di vestirsi stravagante e
appariscente. Oggi il termine
“pacchiana”, è comunemente utilizzato per il costume tradizionale femminile dei
paesi meridionali. Bello e sfolgorante di colori, ritenuto uno dei più
caratteristici costumi tradizionali del mondo, in mostra permanente al Museo di
Bruxelles, il costume tradizionale femminile della città di Castrovillari viene
menzionato già in antichi contratti di matrimonio, risalenti al 1300, quale
abito indossato nel giorno del matrimonio dalle giovani contadine e dunque
inserito nel corredo matrimoniale. Interamente lavorato a mano, (trine,
merletti, cotone e seta erano prodotti a Castrovillari da tempi antichi),
richiedeva anni ed anni di paziente ricamo, per il fatidico “sì” dopodiché veniva usato soltanto in occasione
delle grandi cerimonie e tramandato gelosamente
di generazione in generazione, al punto che alcune donne se lo portavano
anche nella tomba. Fasto orientale e sontuosità greca caratterizzano la
“pacchiana” castrovillarese, nonché gli influssi culturali delle varie
dominazioni subìte dalla città di Castrovillari, e, in particolare, nel gusto del colore e del
ricamo, di quell’arte albanese portata in Calabria sul finire del 1400, dai
profughi di Skanderberg. Orientaleggianti sono i ricami d’oro zecchino sulle
varie parti dell’abito, spagnoleggianti
sono le maniche della camicia ampie e vaporose, annodate da preziose “nocche” ricamate alla gonna
plissettata e il velo realizzato al tombolo, mentre di toni francesi sembra
essere il ricco grembiule, e grecizzante la forma della gonna riccamente
plissettata. Occorre distinguere però dall’abito di gala, l’abito indossato
quotidianamente, per i lavori nei campi, invernale ed estivo, dotato anche di
un panno che copriva il capo di colore rosso se maritata, verde se nubile, nero
se vedova. L’abito di gala si compone, nello specifico, dei seguenti pezzi: “ ‘a cammisa”, camicia di tela bianca o di
lino, con maniche ampie e rigonfie lunga al di sotto delle ginocchia, ornata di
ricami sulle spalle e riccamente merlata al collo; “ ‘a cammisotta”, gonna di panno rosso
orlata, all’estremo lembo, da una larga fascia di velluto verde, sovrastata da
un bustino tessuto in oro e sulla quale portava un grembiule di tela celeste;“
‘ a gunnedda”, gonna di seta celeste, interamente plissettata con il ferro da
stiro riscaldato a carbone per realizzare delle pieghe sulla stoffa, poi cucite
nella parte superiore per renderle più rigide, ricamata in oro zecchino
e,bordata da una fascia di seta rossa alternata a un largo gallone d’oro.
Accanto ai ricami in oro venivano impiegate delle trine preziose in vario
colore; “’i manichi” una sorta di coprimaniche, sempre in seta, che venivano
assicurate al resto dell’abito da nastri di seta rossi; “ ‘u vandisinu”, il grembiule di raso
scarlatto, impreziosito da disegni e soggetti, rappresentanti scene d’amore,
colombi, pavoni, carri con sposi, trionfi di frutta trionfi di fiori e stelle,
ricamati in oro e dalla cui quantità si potevano evincere le condizioni economiche della famiglia
d’origine. Intorno, fine merletto, sempre in oro ricamato anch’esso a mano. I
ricami, erano posti direttamente sulle stoffe a matita e dopo aver posto le stoffe sui telai, per dar
corpo ai soggetti precedentemente disegnati e creare l’effetto-rilievo,
iniziava l’opera di ricamo con cui, gli stessi, venivano contornati da
cordoncino giallo, a sua volta finemente ricoperto di oro zecchino; “ ‘a
tuvagghiedda”, un copricapo di tulle bianco e di forma rettangolare,
lungo fino a coprire le spalle e completamente ricamato colore su colore. La
sposa, però, alle nozze portava una corona di fiori al posto del velo. Ornavano
ulteriormente la giovane sposa la caratteristica acconciatura, “ ‘a jttula”,
costituita da particolari trecce raccolte sulla testa (jette),ornate da un
lungo nastro di seta rosso, “ ‘i cavuzitti i padda”, calze bianche finemente ricamate, le scarpe
bianche su cui le famiglie più ricche ponevano dei ricami d’oro e “‘a cannacca”, una grossa collana d’oro a cui
venivano abbinati bracciali, orecchini ed anelli
(ricerche dal web)
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