L’arte della ceramica in Gerace (RC).


 di Maria Lombardo

Un’attività di “cretari” in Gerace trova già attestazione in era angioina (XIV sec.) ma fu a partire dal XV sec. e, cioè, in età aragonese, che si può parlare di una vera e propria fioritura di quest’arte legata alla presenza in loco di un’attiva e laboriosa colonia ebraica: operavano, allora, gli “argagnari” che, sia d’estate che d’inverno, accendevano all’interno delle mura della città i loro fuochi per la cottura delle “argagni”. Col tempo, però, questa attività divenne causa di preoccupazione non indifferente presso i Geracesi per via degli incendi che, fatalmente, potevano divampare all’interno dell’abitato. Si decise che l’attività si tenesse fuori dalle mura della città nel Piano di Santa Maria. Nacque così un quartiere artigiano, capace di  vantaggioso sviluppo economico sia a livello tecnologico che produttivo. Correva l’anno 1549 e già operavano in loco figuli di ampia rinomanza quali il maestro Bartolomeo Amellino e il maestro Domenico Cama. Le fornaci di quest’ultimo non producevano più semplici stoviglie bianche bensì vasellame policromo. Risalgono pure alla fine di questo secolo alcune mattonelle della pavimentazione della chiesa di San Francesco, opera, senz’altro, dei maestri locali e le piastrelle della cattedrale di Gerace che rivelano una squisita impronta valenziana. Nel XVII secolo l’arte dei figuli geracesi andò esprimendo nomi di ancora maggiore rilievo come quelli di Iacopo Cefalì e Giuseppe Piraina, maestri nell’arte della maiolica d’impronta veneziana e provenienti, ambedue, da “Nicastro la felice”. La bottega di Iacopo Cefalì era specializzata nella produzione di finissime maioliche d’ispirazione veneta recanti medaglioni figurati con ghirlande o corone e circondati da ampie decorazioni floreali di gusto naturalistico. Le sue figure di giovani sono dipinte di profilo o frontalmente, i volti muliebri a tre quarti. All’interno della stessa bottega, Giuseppe Piraina esprimeva la personale originalità in ceramiche colorate quali, ad esempio, i grandi cilindri della collezione Orilia ( museo di San Martino, nel napoletano). Si tratta di una serie di ritratti frontali , profili, figure con elmo di accesa fisionomia giovanile che trovano risalto nella tecnica della “bianca” con contorni spesso sfumati e stemperati in una delicata gamma di diverse gradazioni cromatiche .Rivelava perciò anch’egli, come il maestro, capacità autonome e peculiari trattando in modo personale i temi usuali delle fabbriche venete in esse infondendo vitalità e movimento del tutto nuovi.
L’opera dei due maestri che godeva di larga rinomanza in tutta la penisola, era stata favorita dalla presenza del principe di casa Grimaldi che soggiornò, nel regno di Napoli, per due anni. Fautori di vivaci e produttive iniziative, il principe e i suoi successori portarono avanti, infatti, un ampio programma d’incentivazione di tutte le attività economiche e commerciali del territorio tra cui, naturalmente, anche quelle collegate all’arte della ceramica. Si andava già da allora operando una distinzione tra i “ruagnari” e “pignatari” ( produttori di semplici stoviglie di uso comune) e i “faenzari” ( maestri dell’arte più raffinata della maiolica). Già dalla fine del XVII secolo, i “faenzari” geracesi avevano aderito alla moda della ceramica dipinta a chiaroscuro turchino importata dalla città di Napoli. Tale arte avrebbe pregnato di sé anche buona parte del secolo successivo trovando la sua più valida espressione nella produzione di vasi farmaceutici. Si ricorda, a tal proposito, il Maestro della farmacia Mastroieni ( metà del 1600) cui fa riferimento una grande boccia che reca un’iscrizione dello speziale di origine siciliana. Ma, per quanto orientate all’interno del filone produttivo napoletano di vasi farmaceutici, la produzione geracese del tempo presenta note distintive e peculiari che confermano ancora una volta l’originalità dei ceramisti locali capaci di assimilare le più diverse esperienze per poi rielaborarle in modo personale. Ecco così che i vasi di Gerace, pur riprendendo gli ornati paesistici e figurativi delle fabbriche napoletane con relativa policromia di base, tendono poi ad attenuare i colori sfumandoli all’interno di una più tenue monocromia turchina e a rivivere, in modo più fantasioso, le usuali figurazioni attinte dal vario repertorio iconico calabrese. Non a torto, alla fine del ‘700, il Giustiniani lodava l’arte dei ceramisti geracesi i quali lavoravano “ bellissimi vasellami”. Nel corso del XIX secolo la grande stagione artistica si avviava ad una decisa decadenza. Alle ceramiche finemente lavorate vennero gradualmente sostituendosi semplici stoviglie di uso pratico o più economiche ceramiche “ingabbiate” (con semplice rivestimento di caolino). Rimanendo, invece, sempre grande la richiesta di mattoni da pavimentazione, l’industria locale si orientò verso la produzione di “riggiole” ( mattonelle in ceramica) di modello napoletano. Le necessità pratiche e le diverse richieste di mercato avevano avuto la prevalenza offuscando la produzione artistica di uso ornamentale.

(Ricerche Daniela Ferraro).

 


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