Crediti foto: www.beweb.chiesacattolica.it
di Maria Lombardo
In ogni paese di Calabria la campana ha occupato sempre un posto di primo
piano, poiché ogni evento nascita morte o matrimonio era proprio lei ad
annunciarlo. L'uso delle campane giunse in Europa dall’Oriente diventando poi
di uso comune nel culto cristiano. Nel sec. VI in documenti latini la campana è
indicata con i nomi “signum” e “campanus“: signum perchè il suo suono era un segnale di convocazione
agli atti liturgici; campanus perchè allusivo della Campania, regione da cui,
certamente per merito di S. Paolino da Nola, l’uso dello strumento si è diffuso
in ogni dove. In Italia il suo uso si è di sicuro affermato dal sec. VIII. In
Calabria furono introdotte dai Normanni ed ebbero uso civico ossia servivano
per l'adunata ai lavori e per avvisare l'arrivo dei turchi alla marina!. La
campana maggiore della Chiesa del Purgatorio in Tropea reca impresso il marchio
delle Fonderie Scalamandré in Monteleone di Raffaele e di Nicola Scalamandrè
anno di fusione 1876. La storia dell'antica fonderia Scalamandrè
(soprannominati I Campanari) che per
tutto l'800 ha rappresentato la massima espressione artigianale Monteleonese
nella realizzazione di campane destinate all'intera Calabria e non solo ha
portato non pochi problemi nella conduzione delle indagini, poiché gli eventi
storici e climatici hanno distrutto una miriade di documenti. Hanno prodotto
circa 400 grandi campane per molti siti : Palmi , Maida , Cosenza , Capua e
altre città ora sembra che l'attuale Vibo abbia dimenticato tale realtà. In
Vibo Valentia, sono state prodotte dalla Fonderia Scalamandré le campane di S.
Leoluca, (peso 19 quintali ) la campana del Municipio di Vibo. A Mileto le
campane della Cattedrale ( 20 q.li e 36 q.li ) . A Tropea , la campana maggiore
e la campana minore e potrei continuare ancora per molto. Ed è proprio la
sociometria delle sue tipologie comunicative, oltre naturalmente alla sua
significativa testimonianza storico-documentaria, a farne cogliere il valore di
cultura e di civiltà e a stimolare l’originale ricerca che, a vasto raggio, sta
conducendo da qualche tempo nel territorio calabrese, poiché questo tipo di
ricerca può aprirci uno spaccato particolare nella storia calabrese. Di questo
avviso è anche Mons. Albanese, nella prefazione alla sua opera avverte: «Non
lievi difficoltà ho incontrato nelle indagini: il succedersi d’invasioni,
guerre, saccheggi e terremoti e l’incuria degli uomini hanno contribuito a
disperdere tanti documenti del suo glorioso passato». Mi sono così appoggiata
allo studio di queste opere:”un breve capitolo (“Fonderia di Campane”) del
libro di Mon. Francesco Albanese, intitolato “Vibo Valentia e la sua storia”
(1962, Tipografi a Carioti); alcune note su Raffaele Scalamandré (1887-1919) di
Felice Muscaglione nel suo volume “Eroi, 1915-1918” (Casa Editrice Europa 3); e
per ultimo uno scritto del 1908 di Federico Tarallo, dal titolo “Alcuni cenni
storici sulla fonderia di Campane in Monteleone”, pubblicato in “Raccolta di
Notizie e Documenti della Città di Monteleone” di Pietro Tarallo (1926,
Tipografi a La Badessa). La premessa era
necessaria per onorare un importante capitolo di storia della città di Monteleone, sconosciuto ai più, che
per alcuni versi ha il valore di una scoperta. Vengo a conoscenza di questa
realtà unica che produceva in modo lusinghiero campane d'autore uniche nel
genere grazie al trattato amanuense: “Regole in pratica per fondere le Campane”
e ricopiato per l’ultima volta nel 1901
da Raffaele Scalamandrè. Tutto inizia con l'arrivo del militare francese
François Scalamandrè di Saint-Sornin. Egli comandò le posizioni e le linee di
avanzamento dell'esercito di Napoleone Bonaparte. Nell’Agosto 1806 ferito
gravemente nella battaglia di Maida e ricoverato nell’ospedale di Nicastro
insieme ad altri soldati francesi anche egli feriti nella sanguinosa battaglia,
che successivamente vennero sgozzati nel nosocomio dalla plebe in rivolta nell’
agosto dello stesso anno. Il giovane
francese però già da un'anno viveva a Monteleone e qui prese moglie da cui ebbe
il figlio Raffaele. Ma pervenuto il 1815 Raffaele Scalamandrè inizio a lavorare
nell’officina dello zio proprietario di una fonderia dove si producevano
campane per i campanili di tutta la Calabria. Qualche anno dopo in cui pervenne
in potere della fonderia a Raffaele Scalamandrè che mantenne la fonderia per
quasi sessanta anni poi passandola al figlio Fedele Nicola che fu il
perfezionatore dell’arte di fondere le campane, tra i migliori delle province
meridionali per il decoro a cesello e per la perfetta sonorità che riuscì ad
imprimergli. La fusione avveniva per lo
più in officine nomadi in principio ad opera di artigiani affermati che si
trasmettevano l’arte di padre in figlio. Col tempo si iniziò ad apporre sulle
campane iscrizioni con immagini di santi, con l’indicazione dei fonditori, dei
donatori e della data di fusione. Cosa se fece anche lo Scalamandrè. Si stima
che il numero delle sue fusioni supera le quattrocento di cui parecchie
eccedenti il peso di 10, 19, 20 e 37 quintali e diffuse in tutto il Regno delle
due Sicilie, tra cui quelle eseguite per Maida,per il Duomo di San Leoluca, per
la Cattedrale di Mileto, per Palmi, per Cosenza per Napoli e altri siti. Era la
ricetta di fusione usata dagli Scalamandrè a fare il resto: si comincia a
fonderle in bronzo con una lega composta di 4 parti di rame ed una di stagno. E'
chiaro che alla conduzione del moderno opificio si succedettero schiere di
Monteleonesi che seguirono con interesse le ricette sulla fusione del testo
citato in calce e e con una tecnica
posseduta da non più di una decina di fonderie in tutta la Penisola. E'
chiaro che la conoscenza di questa realtà debba assolutamente passare dalle
testimonianze orali dei discendenti che posseggono documenti originali, libri scritti a mano, stampi di vario
tipo, calchi in gesso, matrici inverse, punzoni, tavole campanarie,
riconoscimenti e onorificenze, che ci hanno permesso di ricostruire buona parte
della storia della Fonderia di Monteleone. Riesco così a datare l'opificio
nell'anno 1671 tempo in cui un certo Gerardo Olita da
Vignola, fonditore di campane girovago, si fermò a Monteleone per assolvere le
commesse che gli erano pervenute dai paesi e dalle province vicine.
Effettivamente da oltre due secoli, illustre per i ricordi istorici, esiste
una fonderia di metalli, l'unica forse e la più accreditata dopo quella tenuta
dal Vinacci in Napoli nello scorcio del secolo decimosettimo. Diciamo che le
cose cominciarono ad andare bene già con la gestione Bruno sostiene il
Tarallo:” Grande fu il credito da questa fonderia raggiunto durante la
giurisdizione del primo Bruno; basti il ricordare che non soltanto le
principali Città e Comuni delle nostre Calabrie si recarono a vanto il giovarsi
di essa per ottenere le campane per le loro principali chiese ma benanco da
lontane Provincie facevasi a gara per procacciarsene, siccome rileviamo da un
libro di memorie a Gerardo Bruno appartenuto, e dai suoi discendenti a noi
cortesemente esibito.
Per la qualcosa noi, sorvolando le campane di minor rilievo che in numero
elevate riscontriamo, accenneremo di poche soltanto a sol fine di avvalorare
vie meglio il nostro asserto.
Nel 1758 adunque il Bruno fuse per Laurino una campana di cantaia sedici;
nell'anno medesimo ne fuse una seconda di cantaja venti chiestagli da Capizzi
la Grosa. Due anni dopo ne fuse un'altra di cantaja sette per Ripacandida, e
nel 1771 ne compì una di cantaja diciessette per Marciano. Una seconda, di
cantaja otto e mezzo, detta la campana di S. Giacomo, inviò a Barletta, ed
egualmente nel medesimo anno ne fuse una di cantaja quattordici per Nardò ed
una terza del peso di cantaja quattordici e due terzi per Oria; anche S.
Giovanni Cortleto ebbe nell'anno susseguente una campana di cantaja nove e
mezzo; ed un'altra, il cui peso non è registrato, l'ebbe il Cilento. Ma quello
che maggiormente onora la memoria di questo nostro fonditore, è la esecuzione,
che troviamo anche registrata nel libro di memorie su indicato, delle due
grandi campane, l'una commessagli dalla città di Nola, l'altra dalla città di
Capua.”
Da quella data fino al 1815 fu tenuta dagli Olita- Bruno, per poi passare
agli Scalamandrè. La situazione sotto il
nuovo ceppo familiare migliora di molto la Fonderia di Monteleone nel 1902
partecipa all’Esposizione Internazionale
Campionaria di Marsiglia e all’Esposizione Campionaria di Roma una campana di 5
quintali che conseguì in entrambe le manifestazioni il “Gran Premio con Diploma
d’Onore e Medaglia d’Oro” per la specialità campane in bronzo. Una delle storie
più attestate uscite fuori da questa
ricerca di cui sempre il Tarallo mi dà notizie e che Niccolò Scalamandrè era
conosciuto ovunque a tal proposito racconta: ”Pochi anni or sono, dal Cav.
Antonio dei Marchesi di Francia, venne proposto al Sindaco di Messina per la
rifusione della vecchia grandiosa campana, il cui peso sorpassa i settantanove
quintali, da molto tempo tolta al campanile del Duomo di quella città perché in
parti spezzata; e già l'opera sarebbe stata recata a compimento, se, per una
irragionevole pretenzione di quel Sindaco, l'amor proprio dello Scalamandrè, e
assai più la sua intemerità, non fosse stato costretto a ribellarsi.
Tuttavolta, questa grande campana giace inerte e polverosa al sito ove
l'avevano deposta. senza mai averla rifatta, segno evidente questo che la
Sicilia non seppe, o forse non volle, offrire gli opportuni mezzi per
rimetterla in vita. Lo Scalamandrè fonde anco in argento; non è gran tempo e
noi abbiamo ammirato un suo getto di questo metallo, dal peso di diciotto Kg.,
rappresentante un bambino in alto rilievo statogli commesso dalla Signora
Mazzapica nei Francica” Sono gli anni in cui Nicola Fedele Scalamandrè intuisce
che il figlio Raffaele ha delle doti per la vita del fonditore e nel 1909
eredita l'opificio. La Prima Guerra Mondiale però portò un cambio di situazione
e Raffaele come esperto venne chiamato alla Fabbrica d’Armi di Terni per
fondere i cannoni utilizzati nel conflitto. L’industria dell’artiglieria
pesante, infatti, approfittò della tradizione e dell’esperienza dei fonditori
campanari costringendoli a produrre cannoni, e il valore del bronzo diede
origine al cosiddetto “diritto alle campane”: gli artiglieri e le loro
compagnie ebbero le migliori campane del paese conquistato e molte di queste,
in occasione di guerre furono trasformate in pezzi di artiglieria; fu questa la sorte che condizionò il
proseguimento del successo della Fonderia. Raffaele si ammala di spagnola e
morì all'età di 37 anni. Con la sua scomparsa ebbe fine l’Antica Fonderia di
Campane rinomata in Italia e all’estero, nonostante la buona volontà e il
tentativo di mantenere in vita la tradizione della fusione di campane da parte
del cugino Vincenzo Scalamandrè che fuse alcune campane tra le quali quella del
Municipio di Vibo Valentia e di Simbario.
Di Raffaele Scalamandrè, ultimo fonditore di campane di Monteleone, non
rimangono tracce nemmeno nel cimitero di Vibo Valentia. La lapide che così
recitava ”qui giace Raffaele Scalamandrè fu Nicola che seguendo le orme
dell’avo e del padre fu valente meccanico e fonditore di lavori in bronzo e che
giovine ancora per morbo contratto servendo la patria in guerra perì fra
l’atroce spasimo dei suoi cari le invocazioni di cinque tenere creature e
l’unanime rimpianto della cittadinanza”, in ossequio al volere del figlio
Nicola Fedele, morto nel 2006. Del primo Raffaele Scalamandrè fonditore
troneggia sul campanile del Duomo di San Leoluca la grande campana fusa nel
1832, ricca d’incisioni, d’immagini di santi, di frasi celebrative con i nomi
dei benefattori, dei parrocchiani, delle autorità religiose e politiche del
tempo; e di converso si nota in maniera evidente lo sfregio che l’incuria del
tempo e degli uomini nonché l’improprio uso di un battaglio esterno sta
danneggiando irreparabilmente.
Commenti
Posta un commento
Dimmi cosa ne pensi!