Lo sapete? I costumi di Montalto Uffugo (CS) e dintorni furono nella rappresentazione parigina de "I Pagliacci" di Leoncavallo
di Maria Lombardo
Com’è noto, Ruggero Leoncavallo quando da ragazzo aveva vissuto a Montalto Uffugo, era stato colpito da un cruento fatto di sangue che gli aveva ispirato la composizione de "I Pagliacci". In quegli anni (1865) giocava con un altro ragazzo del luogo: Rocco Ferrari che diventerà un bravo pittore. Quando il maestro, ormai famoso, dopo avere rappresentato la celebre opera nei teatri di mezza Europa, per l'esibizione di Parigi, volle la scenografia e i costumi i più aderenti possibile alla realtà del luogo, si rivolse a Rocco Ferrari che gli inviò una serie di disegni dei costumi dell’epoca che sono oggi una testimonianza preziosa per gli studiosi delle nostre Tradizioni popolari. Attenzione cari lettori per scoprire il tutto basta una visita a Montalto Uffugo ameno paesino ed al Museo intitolato a Leoncavallo! Ma chi era Ruggero Leoncavallo? Ebbene compositore tra i più importanti di quel movimento artistico che prese il nome di “verismo”. La sua opera più rappresentativa è senz’altro “I pagliacci” che, appunto, appartiene al Verismo italiano, quello di Giovanni Verga. Nativo di Napoli, Leoncavallo si era trasferito con la famiglia a Montalto Uffugo, dove suo padre fu chiamato a ricoprire l’ufficio di Pretore. Le fonti riportano che, a quel tempo e nel borgo calabrese, ci fu un fatto di sangue di matrice passionale. La vicenda avvenne il 5 marzo 1865, come risulta dalle carte giudiziarie che parlano di “atti a carico del detenuto Luigi D’Alessandro fu Domenico di anni 25 (…) e del detenuto Giovanni D’Alessandro fu Domenico di anni 31”, entrambi “calzolai in Montalto. Imputati di assassinio premeditato con agguato, commesso con armi insidiose la sera del 5 marzo 1865 in Montalto, in persona di Gaetano Scavello.”Ma veniamo ai Pagliacci. Nell’opera troviamo un omicidio, quello compiuto dall’attore girovago Canio ai danni della moglie Nedda e del suo amante Silvio, un contadino del luogo, che interverrà cercando di difendere la donna. L’omicidio avviene sulla scena di uno spettacolo che il caso volle tratti proprio di una vicenda di tradimento. Finzione e realtà si confondono in modo drammatico: gli altri attori della compagnia, attoniti per l’orrore, non intervengono a fermare la furia omicida di Canio e anche il pubblico comprende troppo tardi che ciò che sta vedendo non è più finzione e cerca invano di fermare Canio. La vittima, Gaetano Scavello, era stato infatti assunto da Vincenzo Leoncavallo (padre del musicista) come domestico, affinché badasse a Ruggero, che all’epoca aveva appena otto anni. Scavello si era innamorato di una ragazza del paese, di cui era a sua volta innamorato anche il calzolaio Luigi D’Alessandro. Un giorno di marzo, il domestico di casa Leoncavallo, passeggiando per un sentiero della campagna di Montalto vicino alla fontana detta “del somaro”, incontrò la ragazza insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, Pasquale Esposito, e tentò di portarla via con lui; la ragazza rifiutò di seguirlo e proseguì col garzone, finché Gaetano non li vide entrare in un casolare. Scavello si nascose e attese che uscissero. Fermò Esposito, chiedendogli spiegazioni, ma il suo rifiuto di parlare fece infuriare il ragazzo al punto da spingerlo a frustare l’altro alle gambe con un ramo di gelso. Il fatto fu riferito allo stesso Luigi D’Alessandro e a suo fratello Giovanni e i due, la sera successiva, minacciarono più volte Scavello, prima di accoltellarlo a morte in un violento scontro all’uscita da uno spettacolo teatrale. Come riferì al giudice un testimone, tale Pasquale Lucchetta che usciva dalla scala interna del teatro con una lanterna in mano, la scena raccapricciante gli si impose alla vista: Luigi D’Alessandro che scagliava un colpo di coltello inglese da calzolaio alla gola di Gaetano Scavello, mentre il fratello Giovanni lo colpiva all’addome. L’istruttoria fu avviata proprio da Vincenzo Leoncavallo, ma il resto del processo fu seguito dall’avvocato Francesco Marigliano, terminando con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni. La pubblicazione dell’opera non fu affatto facile: una volta ultimato il libretto, il compositore si recò dall’editore Ricordi, ma quest’ultimo rimase sconcertato in particolare dal prologo, oggi considerato un manifesto dell’opera verista. Ricordi obiettò che si creava troppa confusione tra comicità e tragicità, privando – a suo dire – il lavoro di ogni effetto. Leoncavallo però non si perse d’animo e si rivolse all’editore Sonzogno, che lungimirante accettò il lavoro. Fu un successo strepitoso che insidiò, quanto ad incassi, i successi di Giuseppe Verdi e di Giacomo Puccini. Un cast stellare e Arturo Toscanini a dirigere l’orchestra “battezzarono” un’opera destinata a diventare immortale. Celebre è stata la registrazione discografica con Enrico Caruso in veste da protagonista: il disco è infatti ricordato come una pietra miliare dell’allora nascente industria discografica, essendo stato il primo ad aver superato il milione di copie vendute.
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