La quarantena nella storia dell'epidemie calabresi, un male necessario




di Maria Lombardo

In questo tempo, in cui tutti sono “medici e sapienti” come canta Bennato, si danno giudizi frettolosi disconoscendo il passato. Dire che una simile situazione non è stata mai vissuta e che siamo alla fine dei tempi è inesatto, superficiale. Ecco le ragione degli appunti, che abbiamo deciso di pubblicare su questa pagina, visto che i libri trovano poca diffusione. Vediamo, allora, ciò che è avvenuto ieri quando l’uomo per difendere la sua sopravvivenza fu costretto a scoprire i benefici dell’isolamento sociale. Sorvoliamo sul periodo antico e cominciamo ad analizzare l’esperienza degli eroi delle epidemie, i medici, per poi incunearci nei meandri delle scelte politiche, nelle conseguenze economiche e tradizionali. Ovviamente, il nostro quadro di riferimento è il Mezzogiorno e la Calabria.
Nel Medioevo, durante la peste 1347-48, i medici calabresi attribuirono la diffusione del contagio pestilenziale alle polveri velenose sparse dai musulmani. Lo straniero, quindi, ambasciatore del male. Nel 1569, Corigliano fu una zona rossa dell’infezione. Tra luglio e agosto morirono 768 persone su una popolazione che non raggiungeva 4000 anime. Allora, il medico Filippo Ingrassia indicò tre strade per debellare il nemico invisibile: il fuoco, l’oro e la forca. Il fuoco per purificare gli ambienti. L’oro per sostenere economicamente le famiglie meno abbienti. La forca per tutti coloro che si spostavano liberamente eludendo gli ordini della quarantena. Così la cittadina ionica riuscì a salvarsi dall’inferno terreno. Dieci anni dopo, a Nocera Terinese, i medici preservarono gli abitanti dalla malattia, devastante nel circondario, ordinando la quarantena e facendo disinfettare tutte le robe che giungevano nell’abitato, finanche il denaro. Lo stesso rimedio un secolo dopo, a Rovito, grazie all’azione capillare del medico Tommaso Cornelio.
A fronte di tanto sacrificio, un’azione politica che lasciava molto a desiderare. Nel 1597, ad esempio, Cassano non aveva luoghi di ricovero per gli ammalati. A Strongoli, invece, il vescovo preferì costruire il palazzo episcopale al posto dell’ospedale. La stessa Cosenza versava in condizioni igieniche critiche. L’unico ospedale, quello dell’Annunziata fondato nel 1481, aveva poche stanze per i ricoveri, con gli uomini che venivano lasciati su pagliericci e lettiere in pessime condizioni. L’inconveniente dipendeva da due fattori: i furti e la cattiva amministrazione della rendita, con il solo 14% che veniva riservata al servizio medico, all’acquisto di attrezzature e di farmaci. Niente di nuovo sotto il sole.

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