Foibe: il ricordo di Giuseppe Arconti, cittadino di Bova Marina, ucciso dai partigiani slavi
di Maria Lombardo
La stessa sorte di tutti gli italiani morti nelle foibe! Fu
ucciso dai partigiani slavi ed inghiottito nelle foibe carsiche. Giuseppe
Arconti, cittadino di Bova Marina, a soli ventiquattro anni, subì l’ingiustizia
ed il dramma della morte nel nord-est d’Italia dove era stato destinato a
servire la Patria. ARCONTI Giuseppe, classe 1921, si arruolò giovanissimo
nell’Arma dei Carabinieri e dopo aver completato il ciclo di formazione presso
la Scuola Allievi di Roma, fu destinato alla Legione di Milano e,
successivamente, aggregato a quella di Alessandria, venendo assegnato al 16°
Battaglione Carabinieri dislocato in Croazia. Il 15 febbraio 1944 riuscì a
sfuggire ai tedeschi e, per non farsi catturare, si diede alla macchia insieme
ad altri giovani colleghi. Ma la sera del 15 febbraio 1945 venne fatto prigioniero
dai partigiani slavi e tradotto a Clobuzzari, Comune di Dronchia. A Nimis
provincia di Udine, senza un processo, fu passato per le armi e infoibato.
Recuperato il corpo, venne sepolto nel cimitero di Monte Prato, sempre nel
Comune di Nimis. I suoi resti, in seguito, furono esumati e messi nell’ossario
comune. Nel 1945 l’intero paese di Nimis venne incendiato e raso al suolo dai
Cosacchi. Per i suoi familiari, per mamma e papà, che vennero informati in tale
senso, Giuseppe era da considerarsi disperso.Furono i Comunisti del Movimento
Partigiano, italiani inquadrati nel IX Corpus dell’Armata jugoslava, che
miravano all’annessione di quei luoghi alla Jugoslavia con metodi semplici
nella loro crudeltà, ad uccidere Giuseppe mentre fuggiva dalle SS tedesche. Fu
gettato nelle “foibe”, da morto, come altri migliaia e migliaia di italiani.
Giuseppe era consapevole del suo fatale sacrificio. In piena coscienza, subì
quell’orribile morte per difendere l’idea che aveva servito. Un martire. Il suo
sogno lo ritrovò nel fondo della sua coscienza e nel cuore di quei carnefici
che raccolsero i suoi ultimi palpiti e le sue inutili speranze. Con
ineguagliabile e profondo dramma riuscì a non smentire la propria identità di
uomo, di carabiniere e di italiano, fedele sino alla morte ai propri ideali.
Proprio sul punto di donare la propria vita, quando vide i fucili puntati
contro di lui da quei fratelli sconosciuti, ormai pronti a far fuoco, provò nei
loro confronti un sentimento d’angoscia e di pena.Un ragazzo di Calabria che
aveva scelto di crescere e di servire la Patria da Carabiniere, vivendo con
semplicità; che scriveva lettere commoventi ai genitori e si firmava
“affettuoso figlio Peppino”; che sopportava la lontananza dagli affetti con
forza e determinazione. “Sono contento –scriveva- di sapere che a casa tutti
state bene”. Era appena ventunenne, quando lasciò i genitori ed i fratelli per
servire l’Arma.
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