Gennaro Placco, il leone dell’Arberia Calabra: l’Unità d’Italia voluta dai Calabresi
di Maria Lombardo
Non si deve e non si può non conoscere la figura di Gennaro Placco, figura
arberesh del Risorgimento che dopo aver lottato per la libertà non volle onori e cariche. Amico di Settembrini Luigi
che di lui ebbe a dire: « Un bel giovane, una faccia greca, occhi scintillanti,
parlante con una certa enfasi albanese, con l’erre come la pronunciava
Alcibiade. L’anima sua odora di tutta la freschezza, l’ingenuità, la
spensieratezza, la candidezza di un fiorente giovinetto. Ingegno vivido e
poetico, cuore caldissimo e saldo, amava la libertà e sentì che un’ignota
potenza gli sollevava il cuore e la mente. Egli è rozzo nelle maniere, anzi
talora è selvatico, come albanese e montanaro; ma a me piace assai quella
durezza, segno di animo saldo e maschio, quei decisi No e Si senza quella
convulsione civile che chiamasi sorriso, senza quelle cortesi parole che sono
da intonaco sopra un muro fracido; sotto quella dura scorza palpita un cuore
nobile e generoso ». Sono gli anni nel Bagno Penale di Santo Stefano! Gennaro
Placco nacque a Civita, paesino italo albanese nella provincia di Cosenza, il 21
maggio del 1825 da una cristiana famiglia appartenente alla piccola borghesia
rurale e quindi conducente una modesta esistenza economica. Il padre Ludovico
era agricoltore, mentre sua madre Marta Tudda, colpita da un grave male, rese
giovane l’anima a Dio; così egli descrive a Luigi Settembrini la sua famiglia:
<< La mia famiglia era povera; mio padre attendendo al lavoro della campagna,
e mio zio prete amministrando e regolando gli affari di casa, solamente colle
fatiche o col giudizio, a poco a poco si hanno acquistato una certa comodità.
Mia madre, che aveva nome Marta, fece cinque figlioli, tutti maschi, dei quali
io sono primogenito: e la perdei che avevo sedici anni. Povera madre, quanto mi
amava, e che crudele malattia ella ebbe! Io la vestiva, io pa prendeva tra le braccia,
io la tramutava da un letto all’altro, ed ella morì nelle mie braccia
chiamandomi a nome e benedicendomi>>. Lo zio papàs, volle farlo studiare
nel Collegio Italo Albanese San Adriano, dove i giovani venivano educati da
efficientissimi maestri, laici ed ecclesiastici. Lo volevano chierico i suoi
parenti ma in in quella “palestra” indusse,
senza dubbio, il giovane Placco ad una presa di coscienza politica, dove la
necessità dell’essenza di liberalità, traspariva senza linea d’orizzonte. Si
trasferì a Castrovillari per intraprendere quelli legali e da notaio. Nel 1848
sposa la causa della Rivoluzione Calabrese contro la tirannide borbonica e nel
giugno dello stesso anno con altri diciassette suoi concittadini, combattè con
il battaglione comandato dall’altro arberesh Domenico Damis di Lungro a Monte Sant’Angelo
per impedire il congiungimento delle truppe borboniche comandate dal generale
Busacca con quelle del Lanza. Il 27 giugno durante quella battaglia, ferito da
una fucilata all’indice della mano destra fu fatto prigioniero. Venne arrestato
e portato a Castrovillari, successivamente trasferito nel brutale carcere di
Cosenza per essere sottoposto al rigido interrogatorio della Gran Corte Criminale
di Calabria Citra che, il 14 settembre del 1849, condannò il giovane Placco
alla pena di morte. Pensavano di atterrirlo si compiaceva di quel dispetto che
volevano fargli uccidendolo ma il 22 febbraio del 1850 la pena di morte gli fu
commutata in quella dell’ergastolo. Relegato nel bagno penale di Santo Stefano
con altri arberesh come Domenico Damis, Raffaele Mauro, Raffaele Vaccaro, conobbe
il poeta e letterato Luigi Settembrini che lo volle compagno di cella. Fra i
due nacque una fraterna amicizia che durò viva nel corso degli anni. Nel 1852, la
famiglia Placco si adoperò per l’ottenimento della liberazione di Gennaro e un
suo vecchio zio papas di rito greco, Zoti Domenico, presentò a Ferdinando II,
di passaggio a Morano, durante il suo viaggio in Calabria, una supplica per
ottenere la tanto agognata grazia. Il re non l’accolse in quanto non
sottoscritta dall’interessato. Nel conoscere gli intenti dello zio prete, che
disperatamente si batteva per l’ottenimento della sua grazia Gennaro scrisse una lettera in cui chiedeva di morire
da eroe il Placco non volle
sottoscrivere la grazia per se stesso. Giunto il ’59, Ferdinando II venne a consigli
migliori, commutando la pena a molti detenuti politici, all’esilio perpetuo in
Argentina. Sessantasei condannati politici furono scelti per l’esilio e fra
questi il Damis, Mauro, Bellantonio, Lamenza, Spaventa e Settembrini, il solo
Placco fu scartato e per scelta del re che, dalle dichiarazioni del generale Palumbo,
così affermò: “ Questo Placco me ne fece due, è un giovane testardo e bisogna
mandarlo ai ferri perché si ammansisca un po!” Me ne fece due, una la rivoluzione,
l’altra, il non aver voluto sottoscrivere la domanda di grazia, che parve a re
Ferdinando motivo di massima offesa. Il 2 luglio, ormai dissestato il regno di
Napoli, Gennaro Placco fu amnistiato da Francesco II. Ritiratosi nella sua Civita,
dove non trovò più il suo giovane fratello Graziano, assassinato, fece da padre
ai sui due nipotini. Ma non appena seppe che, l’altro arberesh, Domenico Damis,
ufficiale di Stato Maggiore di Garibaldi, era giunto nelle Calabrie, lui e lo
spezzanese Vincenzo Luci, con immediata sfrenatezza si aggregarono e gli andarono
incontro. Il 2 ottobre del 1860 al Ponte della Valle a Caserta, in qualità di
ufficiale del Battaglione degli Albanesi, si battè con tanto valore, che lo
stesso Damis, negli scritti inviati a Camillo Vaccaro, lo ritenne il più Albanese
di tutti. Emigrò triste e sconcertato in Argentina, dove sbarcò il lunario impartendo
lezioni di pedagogia e lingua italiana. Ritornato a Civita, negli ultimi anni
della sua esistenza, ricoprì la carica di sindaco del suo amato paesello. Il
leone dell’Arberia si spense a Civita il 27 febbraio del 1896.
Note bibliografiche:
D. Cassiano, il Risorgimento in Calabria, Marco Editore Lungro 2003.
L. Settembrini, Ricordanze della mia vita e Scritti autobiografici
R. De Cesare, La fine di un Regno, Milano 1969.
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