Storia delle tre contesse di Nicotera
di Maria Lombardo
Nel periodo in cui
Nicotera fu un ricco contado tre donne che furono proprietarie assolute del
Borgo vissero tutte le angherie dei congiunti. Ippolita, contessa di Nicotera
fu la prima di queste sventurate donne, la sua mala sorte iniziò col padre che
maritò: "Tomasina d’Afflitto, figliuola di Gio. Tomaso, e di Camilla di
Capua, il qual Gio. Tomaso era figliuolo primogenito di Michele primo conte di
Triveneto," lascia una sola figlia di nome Ippolita, la quale eredita,
oltre la Contea di Nicotera, il Feudo di Ravello, le "Gabelle di S.
Spirito e le Gratelle" di Napoli, ed altri beni ancora da parte dello zio
Marcello, morto senza altri figli. Sui propri beni il padre, alla sua morte,
aveva lasciato molti debiti per un ammontare di 36.000 ducati, debiti che hanno
avuto una certa determinazione nella vita di Ippolita. Tra l’altro c’è stato un
processo tra essa Ippolita contro Gio. Francesco d’Afflitto, di cui si sa ben poco
, mentre una più ampia conoscenza si ha di una controversia tra la Contessa e,
erede di D.Laura Carrafa, moglie dello zio Marcello. La stessa controversia poi
tra la figlia Maria, Principessa di Scilla e Giulio Cesare Pisano, erede di D.
Laura . Il padre coinvolse la figlia in numerose cause di cui è possibile
tracciare gli eventi. Tuttavia fu grazie al suo sacrificio di sposare Fabrizio
Ruffo che Nicotera entra nel circuito dei beni Ruffo. Dopo la morte del padre,
Ippolita sposa Fabrizio Ruffo, conte di Sinopoli, "da essi – scrive il De
Lellis – discesero i Principi di Scilla e di Palazzolo, portò in casa Ruffo il
contado di Nicotera". Fabrizio è figlio di Paolo Ruffo di Scilla, Conte di
Sinopoli – morto nel 1564 – ed il matrimonio è stato voluto dallo stesso Paolo,
al fine di incrementare la sua potenza economica e guadagnare ulteriore
prestigio per la Famiglia." Fu così che grazie a questa unione che Paolo
Ruffo mise le mani sul contado di Nicotera. Approfittando delle ristrettezze
economiche, causa principale i debiti ereditati, in cui si dibatteva la vedova
Tommasina, lo stesso Conte di Sinopoli, Paolo, riesce a convincere la vedova
dell’utilità e convenienza di far sposare i loro due figli: Ippolita e
Fabrizio. Nel 1561 si celebra il matrimonio, che, secondo le usanze, è
preceduto dalla stesura del contratto di dote, che si conclude vantaggiosamente
per il Conte Paolo, ma soprattutto per il figlio, nelle cui mani è andato a
finire tutta l’eredità del conte Annibale. Una manna dal cielo! Seguendo, infatti,
le consuetudini del tempo, dette dei "Proceri e Magnati", è stata
posta la clausola che la moglie orfana di padre, poteva fare testamento secondo
la sua volontà, quindi anche a favore del marito non solo, ma il marito
ereditava i beni della moglie defunta, anche in caso di morte di figli in
tenera età. E ciò con evidente intenzione di far confluire alla casa Ruffo i
beni dei De Gennaro. Tanto è vero che lo stesso Paolo, molto furbescamente, nel
testamento per le sue figlie, ha seguito altre consuetudini, quelle napoletane
dette di "Nido e Capuanza" o "alla nuova maniera", secondo
le quali, in caso di decesso di uno dei coniugi, l’altro non poteva succedere
nei beni che, invece, ritornavano al donante e suoi eredi. Tra tutti i possedimenti
del Ruffo figurava Scilla nel 1578, con diploma emanato da Madrid, ottenne da
Filippo II, il titolo di Principe di Scilla. Ippolita però stava vivendo un
periodo buio della sua vita, nel mese di febbraio e di dicembre del 1569, i
suoi beni burgenzatici passano al marito e praticamente rimane povera ed alla
mercè della prepotenza del marito stesso a cui interessava il suo commercio, la
sua dignità, la grandezza del Casato. Inutilmente Ippolita, aveva poi chiesto,
finchè visse, l’annullamento delle donazioni, perché estorte con la violenza.
La vita della Contessa, specie negli ultimi anni, è stata un vero calvario, per
come chiaramente ed ampiamente descritto in un documento di richiesta per
l’annullamento del contratto di dote, nel corso della lite fra le due sorelle
Maria e Margherita Caterina. Numerose testimonianze hanno evidenziato non solo
il carattere violento e prepotente del Principe, ma le condizioni miserevoli,
di assoluto abbandono e di disperazione della Contessa, che persino invocava la
morte come una grande liberazione. Memorabile resterà l’ultima notte, quella
notte del 1585 in cui la seconda Contessa di Nicotera, ha riacquistato la sua
dignità, il suo prestigio, la sua libertà nella vita eterna. Non migliore fu la
sorte della figlia di Ippolita e Fabrizio Maria, Principessa di Scilla e
seconda contessa di Nicotera. Ippolita morendo lasciò la figlia Maria in balia
della sete di potere del padre. Il Principe Fabrizio continuò ad amministrare,
per conto dell’unica figlia Maria, Principessa di Scilla e Contessa di
Nicotera, anche i beni feudatari ereditati dalla propria madre. Tuttavia non
passa molto tempo ed il Ruffo sposava, dopo pochi mesi, Isabella Acquaviva
d’Aragona, figlia di Giovanni Girolamo, duca d’Atri, da cui ebbe un’altra
figlia, Margherita Caterina. Ma tutto non viene per nuocere ed a distanza di
due anni, muore il Principe terribile lasciando con testamento del febbraio
1587, a Maria tutti i beni feudali, mentre quelli burgenzatici e altre entrate
annuali sui beni feudali, all’altra figlia, Margherita Caterina. Inoltre non
mancarono le imposizioni e le clausole se Maria avesse sposato il cugino
Vincenzo, figlio di suo fratello Marcello, avrebbe ricevuto in eredità anche un
terzo dei beni burgenzatici. I debiti, poi, gravanti sul patrimonio, andrebbero
ripartiti tra le due figlie in proporzione all’eredità ricevuta. Se invece
avesse rifiutato di sposare il cugino, avrebbe dovuto togliere dai beni feudali
150.000 ducati per darli a Marcantonio Colonna, col quale aveva già trattato il
matrimonio. Alla moglie dava la gestione di tutti i feudi sino a quando Maria
non si fosse sposata; le affidava, unitamente al suo congiunto Fabio Marchese
ed al marchese di Fuscaldo, la tutela di Maria e la nominava, inoltre, tutrice
della fanciulla Margherita, assieme a stesso Fabio Marchese. Ma il principe
lasciava anche due figli naturali. Beatrice, già menzionata nel 1571 e Orazio,
riconosciuto prima di morire. Alla prima lasciava in eredità 6.000 ducati, al
figlio 150 ducati annui. Maria non ha alternativa ed accetta lo sposalizio col
cugino, malgrado l'opposizione alle nozze di Marcantonio Colonna a cui era
stata promessa in isposa Maria. Con l’aiuto dello zio Geronimo, Filippo II dava
il regio consenso.Maria portava in dote al marito tutti i suoi beni,
trattenendo per sé la città di Nicotera col feudo di Ravello. Difficili i
rapporti tra le sorelle esse «non ebbero vita facile per le vecchie
controversie ereditate e quelle nuove con l’Università di Scilla per il
pagamento di notevoli somme corrispondenti a ducati 55.407.50 più altri 7.000
ducati.«Ma non mancarono anche le controversie tra le due sorelle. D.
Margherita, tra l’altro, chiedeva che i debiti da pagare, ereditati dal padre,
dovessero ricadere non solo sui beni burgenzatici di cui ella era erede per
2/3, ma anche su quelli feudali spettanti a D. Maria. La causa si risolse a
favore di Margherita (G. Misasi, op.cit., pag. 13. «La guerra familiare fu
molto aspra tanto è vero che Maria cercò addirittura di invalidare il
testamento della Madre. (Della causa per tale richiesta d'invalidazione del
testamento esiste soltanto una parte di documentazione, e precisamente, la
richiesta di Maria con le motivazioni e le deposizioni dei testimoni a suo
favore)». Nel 1612 Vincenzo decideva di acquistare la terra di Tropea per un prezzo
ritenuto un po’ esagerato per quei tempi, cioè 191.04.1 ducati e prima ancora
del marchesato di Licordia. Ma la sommossa dei cittadini indusse le autorità
statali ad annullare il contratto. Nel '15 si spegne Vincenzo e Maria sposa il
principe di Bisignano, Tiberio Caraffa, portandogli in dote 100.000 ducati. Nel
1618 la Contessa acquistava il feudo di Ioppolo, con il casale di Coccorino, da
Francesco Galluzzi, pagandolo 13.000 ducati. Intanto i problemi legali e le
doti delle 3 figlie Giovanna, Imara e Margherita, i debiti le spese sostenute
per le cause varie, avevano messo a dura prova le capacità economiche della
Contessa che si vedeva costretta ad eliminare parti del patrimonio.Così ad
Imara passò Fiumara di Muro, mentre la Contea di Nicotera passò prima alla
figlia Margherita come risarcimento per dote e quindi al marito Principe della
Riccia, per risarcimento crediti, soltanto però per gli utili e non per la
proprietà, che passò invece alla figlia Giovanna, erede diretta. A causa di una
crisi provvisoria, Maria ritenne di dover vendere la città di Anoia per far
fronte in parte ai crediti della sorella Margherita, e, seguendo l’andamento
generale della feudalità, decideva di non gestire più direttamente i feudi,
come avevano fatto i predecessori, ma concederli in fitto. Nicotera veniva data
in affitto per 6 anni. Nel 1628, Maria predisponeva il suo testamento eseguito
poi nel 1630, alla di lei morte. Con questo strumento la testataria cercava di
porre un freno allo smembramento del suo patrimonio, istituendo un
"fidecommesso primogenitale" di 150.000 ducati. Il fidecommesso (dal
latino fidei committere = affidare alla buona fede (di qualcuno)) era un
"istituto giuridico con cui il testatore vincolava i beni ereditari ai
propri discendenti per una o più generazioni, e spesso all’infinito, sé che
tali beni diventavano inalienabili e non potevano uscire dalla famiglia";
se "primogeniturale", i beni dovevano andare in eredità al
primogenito, venivano escluse però le figlie femmine, salvo che non sposassero
un uomo di casa Ruffo. Il fidecommesso andava quindi al figlio Fabrizio che
passava, con la sua morte prematura, alla sorella Giovanna con la condizione
che se non avesse avuto figli, sarebbe successa la sorella Imara e, in caso di
estinzione, ai discendenti di Pietro Ruffo, fratello secondogenito del duca di
Bagnara.Nel 1701 il nipote faceva sistemare le ceneri nel duomo di Nicotera
ponendovi un’epigrafe che trovasi attualmente custodita nel locale Museo
Diocesano d’Arte Sacra. Giovanna, terza contessa di Nicotera sposò nel 1606
Francesco Vincenzo Ruffo, figlio di Muzio, fratello del padre, e di Camilla
Santapau. Il matrimonio era stato voluto e preparato dal padre il quale,
rendendosi conto della infermità del figlio, aveva evitato l’estinzione maschile
della famiglia Ruffo, anche se il nipote apparteneva ad un ramo cadetto della
casta. La dote assegnata era stata di 100.000 ducati di cui 30.000 versati
all’atto del matrimonio ed il resto in tre anni. Il Ruffo incamera Licodia e
rinuncia al principato di Palazzolo. Nel 1717 Giovanna succedeva nei feudi del
padre (Fiumara di Muro, Calanna, S. Severina, Melicucco e Pietropaolo), mentre
i beni della madre rimanevano alla stessa. Nel 1619 acquistò Cutro, con la
terra di Roccabernarda ed il casale di S. Giovanni Minagò. Mentre nel '23
acquistava la baronia di Anoia e l'anno dopo la foresta dell' Aspromonte.
Rimasta vedova ottenne anche i feudi del marito in Sicilia. Si risposava poi
con Francesco Maria Caraffa di Nocera. Con Giovanna il patrimonio feudale della
famiglia Ruffo sembra avesse raggiunto la massima espansione. Ma i debiti erano
pure ingenti per cui, verso la metà dei seicento, il Sacro regio Consiglio,
incominciava a porli sotto sequestro a favore dei creditori. Nel 1645 veniva
nominata una commissione per eseguire la valutazione di tre fondi, da parte del
regio tabulario Tango, tra cui la Contea di Nicotera che rappresentava una
rendita feudale annua di ducati 2.912.4.10 di cui 435 (pari al 14,9%)
provenienti dai diritti giurisdizionali, 170.2.10 (5,8%) dai diritti proibitivi
e 2.307.2 (79,3%) dalle entrate fondiarie. Di queste ultime, il gettito maggior
era fornito dalla Masseria di Ravello. Dopo l’apprezzo , la Contea di Nicotera
passava, solo per l’usufrutto a Frabizio di Capua, principe della Riccia, suo
cognato, a risarcimento di crediti, che lo tratteneva, attraverso gli eredi,
sino al 1763; riscattato poi dalla legittima famiglia dei Ruffo. Il Feudo di
Ioppolo e Coccorino, veniva venduto ai Mottola d’Amato e venivano eliminati
altri feudi. Giovanna, Principessa di Scilla, Contessa di Nicotera, compiva la
sua vita terrena nel febbraio del 1650, a Scilla, tra il rimpianto di tutti i
suoi concittadini che l’amavano per le sue virtù e la sua dedizione verso i
poveri. "La Principessa impegnò tutte le sue ricchezze e tutta se stessa –
la ricorda Alessio Ruffo – per sollevare le indigenze degli infelici e per
arricchire Scilla di opere di beneficenza, di monumenti, di opere di utilità
pubblica. Creatura mite, generosa, devotissima, fu una principessa veramente
illuminata". Non poteva essere diversamente anche per la Città di
Nicotera.
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