U siricu va chiangiutu! (le Bigattaie)



di Maria Lombardo



 Anche quando “l'industria serica” calabrese crollò inesorabilmente a causa della poca attitudine dei Calabresi alla modernità ed al progresso, poco centra il passaggio di Garibaldi che distrusse la nostra economia secondo l'ormai irrecuperabile visione storica dei neo meridionalisti. Le donne calabresi le instancabili bigattaie che consideravano i bachi molto delicati, per proteggerli dai morbi, gettavano vino, zolfo e zucchero sulle foglie di gelso, mettevano sui graticci erbe aromatiche come genziana, valeriana, camedrio e tanaceto. Le malattie erano però provocate da esseri malvagi da neutralizzare con la magia e la religione. Viva la loro ingenuità! Questo modus era determinato dall'istitnto di sopravvivenza i contadini calabresi erano soggetti ai capricci di clima et natura: l’obiettivo era, innanzitutto, la sicurezza del cibo. “Le “vurganti” pur di difendere i luoghi di lavoro credevano in pratiche religiose e di malia. Credevano nel malocchio che annientava i bachi beata ingenuità! I folletti dispettosi riempivano le loro masserie e le fate e le streghe figure archetipiche del mondo popolare, erano gli esseri più malefici poiché con i loro incantesimi rendevano languidi i bigatti, facevano appassire i gelsi, favorivano condizioni climatiche contrarie all’allevamento61. Per distruggere le foglie scatenavano gelate, grandine e pioggia; per eliminare i filugelli si servivano di animali come topi o formiche. E poi c'era il malocchio con tutte le credenze.Greco ci informa che le donne del cosentino erano «attaccate in materia di bachi al vulgare pregiudizio del fascino, detto tra noi iettatura». E aggiungeva: «Non sarà parimenti fuori proposito l’accennarvi le difficoltà incontrate a penetrare nelle piccole bacaie, non ostante il concorso delle autorità municipali, le quali ci servivano ovunque di scorta e di assistenza. Difficoltà che ci opponevano i pregiudizii dei tapini ed insipienti bachicoltori, radicati, come di consueto, maggiormente nel sesso femmineo, alle cui cure appunto l’allevamento dei bachi resta il più delle volte affidato. Giungono a tal segno i pregiudizii di questa gente ignorante da sorpassare ogni credere. Si ritiene ad esempio fermamente da essi che la visita di chicchessia ai loro bachi è sufficiente perché questi vadano presto o tardi a morire: che se un sol baco togliesi dalla loro bacheria, i rimanenti anche periscono; che se un bozzolo si asporti da una partita andata bene, si toglie l’augurio; e varie simili insipienze». Era provocato da uno sguardo dice Marzano: «Un altro, in fine, che allevava i bachi da seta, che aveva la sua casetta piena di cannicce colme del serico verme, il quale abbandonata l’ultima spoglia, avviatasi già pien di vita al bosco, lamentatasi che un tale introdottosi, a caso, in quella bigattiera, vedendo quel ben di Dio, ne fosse rimasto meravigliato, e che bastò questo solo per mandare a male quella piccola industria, intorno alla quale aveva speso tante fatiche e tanto denaro». Raffaele Lombardi Satriani racconta che, secondo la credenza popolare, in alcune fasi dell’allevamento, la stessa occhiata della bigattaia potesse affascinare i filugelli: «Non si deve guardare fisso il baco, quando è per andare al bosco, per evitare che non faccia il bozzolo». Ovvio che le bigattaie erano sempre in ansia. Per fare in modo che la vicina non avesse motivo di guardare con occhio cattivo (“adocchiare”), le donne si lamentavano sempre dello stato di salute dei loro bachi: «Chi alleva i bachi deve piguliarsi, – scriveva Marzano – cioè lamentarsi che i bachi mujono, in altro caso il malocchio farà andare a male quell’industria». “U siricu vo’ chiangiutu” si diceva nelle campagne per questo ho scelto questo titolo!. In Calabria si suol dire a riguardo: Sputalu sempri, ca gattu sputatu non può d’esseri affascinatu, e gatto è preso come termine generico al quale si può sostituire quello che volta per volta interessa». Tutto si faceva nel segreto. Scriveva Padula: «Il primo che spunta dicesi cavallaro, e se ne tace la notizia alla vicina per non essere fascinato. E la pezza si lega di nuovo, e si ripone. Si apre la dimane e si dice: ‘Presto via; la semente è ‘mpuollulata, e vuole essere parata, altrimenti s’affoga’». Ecco che se la vicina entra nel momento della semina si deve cantare la vala. È buono augurio se la raccoglitrice della fronda trova sulle foglie del moro la semente cacata e depostavi dalle farfalle aeree, o se cade dall’albero, o se tornando incontra lungo la via 2 serpenti accoppiati. Gli uccide allora con un palo, il quale, se si riporta senza passare fiume, si crede, a metterlo tra i bachi, potente a favorire i bozzoli e ‘l baco». Questa preoccupazione di tenere i bachi fuori da ogni sguardo malefico colpì l’attenzione della Pigorini-Beri durante un suo viaggio in Calabria: «Il soffitto è dimezzato di canne o di vimini che tiene in conserva le loro derrate, qualche volta i bachi da seta di cui sono cultori attivi e gelosi, fino a impedire l’entrata allo straniero che potrebbe fare il malocchio». note 54 Reddiconto della Reale Società Economica della Provincia di Calabria Citra per l’anno 1860, cit., pp. 17-18. 55 Cfr. Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, parte II, Basilicata e Calabria, Roma, tip. Nazionale di G. Ferrero, 1909; Vincenzo Padula, Industria, terreni e stato delle persone in Calabria (dal ‘Bruzio’), Roma, Padula ed., 1978; Giovanni Sole, I contadini nelle relazioni di alcuni accademici, in “Viaggio nella Calabria Citeriore dell’800”, cit., pp. 133-142; Id., Contadini e pastori in uno studio di Michele Fera, in “Viaggio nella Calabria Citeriore dell’800”, cit., pp. 327-340. 56 Cfr. Giovanni Sole, Santi, grani e carestie nella Calabria Citeriore dell’800, in “Daedalus”, n° 5, (luglio-dicembre), Castrovillari, 1990, pp. 85-128; Id., La fame nera. Le carestie nella Calabria dell’800, in V. Teti (a cura di), “Mangiare Meridiano. Le culture alimentari di Calabria e di Lucania”, Cosenza, Carical, 1966, pp. 165-183. 57 Sulla sacralizzazione degli spazi cfr. Francesco Faeta, I cammini degli antenati: rituali popolari di rifondazione territoriale, in F. Faeta (a cura di), “L’architettura popolare in Italia. Calabria”, Bari-Roma, Laterza, 1984, pp. 207-230; Ernesto De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini. Contributo allo studio della mitologia degli aranda, in “Il mondo magico”, Torino, Boringhieri, 1973, pp. 261-276; Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Roma-Bari, Laterza, 1988; Id., Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Milano, Elèuthera, 1993; Rudolf Arnheim, Il potere del centro. Psicologia della composizione nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1984; Hans Seldimayr, Perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Torino, Borla, 1967. 58 Alessandro Adriano, Carmi/tradizioni pregiudizi nella medicina popolare calabrese, Cosenza, Pellegrini, 1983, p. 36. 59 Vincenzo Dorsa, op. cit., pp. 113-114. 60 Ivi, pp. 146-147. Sulle fate cfr. Laurence Herf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1989; Vladimir Ja Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Boringhieri, 1985; Id., Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton Compton, 1982; Marie-Louise von Franz, Le fiabe interpretate, Torino, Boringhieri, 1980; Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1977. 61 Cfr. Carl Gustav Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in “Opere”, vol. IX, t. I, Torino, Boringhieri, 1980; Jacobi Jolande, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G. Jung, Torino, Boringhieri, 1971. 62 Nella poesia “Lu gattu”, Donnu Pantu ricordava l’importanza dei gatti nelle “bacherie” (Donnu Pantu, Poesie calabre, Cosenza, Brenner, 1983, p. 71). 63 Sul malocchio e la iettatura cfr. Ernesto De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1981; Raffaele Lombardi Satriani, Credenze popolari calabresi, Napoli, Fratelli De Simone, 1951, pp. 146-170; Nicola Valletta, La iettatura, (ristampa), Città, Libritalia, 1997; Erberto Petoia, Malocchio e jettatura. Le forme, la storia, l’analisi di un’antica e universale superstizione dalle prime testimonianze letterarie ai giorni nostri, Roma, Newton Compton, 1995. 64 Lorenzo Greco, op. cit., pp. 69-70. 65 Gian Battista Marzano, Pregiudizii e superstizioni, meteorologia, terapia e fisionomia, dialetto e letteratura popolare di Laureana di Borrello e d’alcuni paesi del suo mandamento, in “La Calabria”, Rivista di Letteratura Popolare, a. II, n. 3, Monteleone, 15 novembre 1889, p. 7. L’occhio, scriveva Campanella, «manifesta molte cose magiche» e lo sguardo di alcuni aveva una luce talmente possente che si “abbatteva” sugli altri (Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia, libro IV, cap. XIV, Cosenza, Laboratorio Edizioni, 1987, pp. 86-87). Cfr. Giovanni Sole, Il basilisco e la taranta. Tommaso Campanella e il mondo magico, in “Rogerius”, Bollettino dell’Istituto della Biblioteca Calabrese, Soriano Calabro, a. IX, n° 1, gennaio-giugno 2006, pp. 45-60. 66 Raffaele Lombardi Satriani, op. cit., p. 16. E Adriano scriveva: «Da noi (…) se uno di quei tanti piccoli o grandi, indefiniti ed indefinibili malori colpisce un individuo qualsiasi; non c’è dubbio alcuno: è stato affascinatu (fascinato). Vale a dire che ha subito l’azione malefica del fascino o jettatùra emanante da certe persone, le quali, per malignità, per invidia o per vendetta, oppure involontariamente, con gli occhi (‘u maluocchiu) e con le parole (‘u picciu), hanno influito sulla sua salute (…) E, siano anche gli sguardi di una persona cara e perfino della stessa madre, il fascino è sempre possibile quando gli occhi restano fortemente colpiti dai pregi fisici della propria creatura, o quando, nel farne le lodi, vengono usate parole di grande compiacimento» (Alessandro Adriano, op. cit., pp. 27-28). Sul significato simbolico dell’occhio cfr. Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, vol. II, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 148-152. 67 Gian Battista Marzano, op. cit., p. 8. 68 L’Istituto Bacologico Consorziale Autonomo per la Calabria e attività svolta negli anni 1924-925; 1925-926; 1926-927, Cosenza, Tip. Riccio, 1927, pp. 160-161. 69 Ivi, p. 61. 70 Vincenzo Padula, Calabria prima e dopo l’Unità, cit., p. 149. 71 Ivi, p. 151. 72 Lorenzo Greco, op. cit. 73 Caterina Pigorini-Beri, In Calabria, (ristampa), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, p. 43.

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